Nino Majellaro: “L’acqua che impasta dal cielo le case”

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Perseguire una ricerca tematica sull’idea di origine è l’obiettivo al centro della poesia di Nino Majellaro (Milano 1954-2006). La sua opera, riunita in un’antologia di poesie scelte per le Edizioni del Laboratorio nel 2000, vede nel rapporto tra nome e cosa il fulcro speculativo attorno al quale verificare ogni ipotesi di senso. In dialogo continuo con il visibile, Majellaro si interroga sulle radici stesse del linguaggio erigendo, come scrive Vincenzo Guarracino all’interno della sua nota, una sorta di «teatro della parola». Così, le cose del mondo figurano come gli elementi di una scenografia della quale si ricerca il significato:

Persistente come un metronomo l’acqua che impasta/ dal cielo le case somiglia al quotidiano, bagnata/ è l’idea che si possa purgare la nostra mente/ da pregiudizi/ da una direzione non vi è devianza/ il fine, o la fine, o una direzione/ pietosamente all’uomo è nascosto, non è possibile/ controllare quanti morti sostituiscano la nostra morte/ né una probabilità soggettiva può eliminare l’errore./ A tavola i sapori per noi sono preventivati da altri/ e congetture parole passaggi di memoria sono un muro/ che è bene verificare affinché nel giorno trovino corrispondenza/ i fatti: capita di essere malati di mente e venirlo a sapere/ dagli altri.

Nei versi summenzionati, tratti da La memoria artificiale, l’occhio del poeta si fissa su dettagli via via sempre più particolari solamente dopo avere posto in rilievo l’elemento che li unifica: l’acqua è una figura dell’origine e scorre di cosa in cosa con un ritmo definito e «persistente come un metronomo». Il visibile viene scorporato parte per parte con lo scopo di individuare la ricchezza che lo anima e lo scandisce. Sulla scia di una scrittura odeporica, Majellaro penetra nell’esistente sondandone le connessioni e le discontinuità. La conoscenza, quindi, deriva dall’ascolto e dalla contemplazione: le categorie logiche, da sole, non bastano a definire le ragioni della differenza e della contraddizione. Soltanto verificando tutte le ipotesi possibili, è possibile «venire a sapere da altri di essere malati di mente» e riconoscere la profonda asimmetria che permea di sé il reale. Sembra postulata la necessità di un metodo di indagine che, scindendo il nome dalla cosa, punta a scavare nella ferita rivelandone l’intrinsecità contraddittoria e mutevole:

Il mare/ finisce dove si poggia un piede e poi l’altro/ e si scende dall’altra parte e si pensa di essere spariti/ come chi crede di attirare la notte/ facendo ombra.

Il riferimento al mare come immagine simbolo dell’esistenza svela la natura ingannevole delle cose: oltrepassando il limite, lo svanire è soltanto supposto, poiché quel che era mare potrebbe continuare a esserlo malgrado la linea di confine. Dal momento che risponde a un’istanza d’individuazione tutta umana, la parola può trarre in inganno:

Solfeggia la linea della collina/ un’ala mattinale lievitata/ dalla memoria/Gabbiano dislocato su un mare d’erba./ Il mare!/ La parola lo ha ingannato.

Il volo di un gabbiano sopra la linea della collina si svolge sulla musica incantata della memoria. Il viaggiatore che osserva ben si rende conto di che cosa possa recare con sé una dislocazione delle radici: l’esistenza traina con sé anche le parole. Il mare sul quale il volatile si è adagiato non è altro che un mare d’erba e in tal senso il ripetersi di un luogo che si credeva di avere lasciato. La parola, pertanto, si dispiega in tutta la sua illusorietà, rivelando uno scenario dove gli opposti possono coincidere. In un simile immaginario poetico, l’universo pare regolamentato dalle leggi di una memoria primitiva a cui obbedire e prestare ascolto:

incisa sulla roccia una scorta di caratteri/ trasmessa in tutte le direzioni/ è diventata l’alfabeto/ la memoria

Il poeta che viaggia tra le cose ne riporta le voci in una scrittura atta a individuarne il segno originario:

la parola barbaro è eloquente/ nata al fine di indicare i gridi degli uccelli (…)/ ogni parola decifrata è un uovo fossile/ non nasce nulla/ io riporto le voci in una scrittura/ e già la voce è oscura.

La parola «barbaro» non solo afferisce a una realtà primitiva, ma rende anche bene il senso del trapasso all’interno di un territorio semantico di cui non si conoscono le norme. Riecheggiando in sé il grido degli uccelli, è parola nata al fine di designare una realtà preumana e priva delle regole del linguaggio. L’intento dell’autore è quello di allacciarsi alla voce delle cose al fine di muoversi a ritroso verso la loro origine. La voce è oscura perché in essa si condensa il mistero geologico dell’esistente. Nulla nasce poiché tutto continua a trarre sostanza da forme archetipali le cui origini si perdono nel tempo. Per questa ragione, l’atto del nominare si rivela un’impresa tutt’altro che facile:

Provo a raccontare da principio/ l’esperienza del giardiniere. Egli vede la terra/ come luogo dell’albero. E ciò che sta/ intorno e cresce e muore dentro l’albero/ per un’immagine di sé che avanzi./ A questa casa dalle mura labili e dalle quinte/ profumate è dato un tempo che si muove/ con l’aria dell’erba falciata./ Dentro le camere/ l’oggetto ha un posto precario./ Dare un nome alle cose non è facile. / L’insetto trasporta colori in luoghi sconosciuti./ La vita ci somiglia a poco a poco/ dentro alberi muti.

La poesia di Majellaro si svolge tutta in un movimento a ritroso verso il mistero stesso della conoscenza. L’esperienza del mondo può essere accostata a quella di un giardiniere che vede la terra come luogo deputato alla crescita dell’albero. Il poeta si propone di ricostruire l’intero processo che presiede alla nascita di un giardino: tutto quello che sta intorno all’albero cresce e muore dentro quest’ultimo al fine di assolvere a una prestabilita ciclicità. Il destino delle cose è ciclico e a un tempo indefinibile secondo le logiche del nome: la parola migra poiché anch’essa soggetta al divenire. L’unica dimensione che avvicina alla vita è il silenzio, in quanto privo di movimento e dunque di linguaggio. Così, solamente cristallizzando e fissando l’immagine all’interno di un circuito atemporale, diviene possibile liberarla:

Se l’albero ha muri/ che lo chiudono non è albero/ se non nella matita che lo libera

Il pensiero che transita su un foglio scoprendovi un approdo conosce espressione e si vivifica. Per tale ragione la scrittura viene percepita come l’esito di un movimento grazie al quale sottrarre le cose al loro andamento ciclico e risalire alle loro tracce:

sul foglio un albero vive/ il soffio di una traccia./ La mente progetta/ segni di apparenza./ Storia di mutamenti vegetali/ e memoria di sabbie./ Scrittura dei passaggi di ieri.

Attraverso l’albero riprodotto sul foglio, la mente assiste all’apparire di segni utili a leggere la storia dei mutamenti e le «scritture dei passaggi di ieri». Quello di Majellaro è un lavoro di scavo archeologico nella parola volto a ricostruire il significato di ogni passaggio e le radici dell’esistere:

se entro nell’albero/ scendo nella terra/ in tempo per fiorire.

L’immagine dell’albero allude alla vita che si rinnova. E tuttavia, come si è visto, la scrittura soltanto conferisce alla mente la facoltà di liberarsi dai limiti che la circoscrivono. Entrando nell’albero poco prima disegnato, l’autore riconosce la possibilità di discendere nella terra per fiorire. Lo sforzo immaginativo assume una valenza vivificatrice tale da assimilare lo scrittore a un albero i cui rami sono rappresentati dalle pagine che egli ha scritto:

La scrivania dei rami. / E le mie pagine./Di ciò che comincio./ Di ciò che risalgo./Di ciò che è muto./Del giorno e di un giorno./Dell’occhio che mi entra./Del punto che non ha volo./Le parole./Foglie a battere il fianco./Mi imita l’uomo./Sono un albero.

Nella poesia di Majellaro si assiste a una duplice tensione: mentre da un lato l’autore viaggia tra le cose con l’intento di intercettare la loro origine, dall’altro cerca di risolvere il viaggio entro i confini di una dimensione statica per isolarvi i significati. In questi versi, egli si paragona a un albero cresciuto nel terreno fertile della scrittura. Le parole battono sui suoi fianchi come foglie pronte a staccarsi, esposte a un vento che le investe e le muta. La scrittura è una forma di radicamento nella verticalità: essa consente di innalzarsi rispetto allo scorrere orizzontale degli accadimenti umani. Molte le figure attinenti al divenire rintracciabili nell’opera di Majellaro. Fra queste, il fiume:

il fiume è una costruzione antica./Lo stringono pietre e mare./ Sul fondo dormono stelle spente./ Galleggiano nel sole pianeti/ di lattine e rifiuti./ Di notte cavalli e lune./ Incombono sul mio viaggio le dune/ spettrali, e ombre sedute in ascolto/ dei passi che vanno verso il mare./ Il fiume scivola lentamente/ tra i lembi delle foreste/ con sussurri di ossa./(…) La corrente segna un tracciato che non è/ la storia di noi; non guarda indietro/ non si ferma. Va e scende./Ogni pietra lacerata non risale al suo punto come memoria./ L’acqua che passa non ritornerà/ a un luogo d’amore, cadrà/ dove risalire è impossibile./Divide la terra in due sponde./ Io seguo una sponda. In viaggio/ l’altro di me m’accompagna/ sulla sponda opposta./ (…) E passato l’oro delle parole/(…) La vita se ne va/ allegramente con i fantasmi che non hanno peso (…)

La mente si volge in direzione di una dimensione atavica, plasmando su quest’ultima il proprio immaginario. Nel testo si affastellano le costruzioni antiche su cui il cosmo si regge: il fiume, stretto da pietre e mare, sul fondo reca stelle oramai spente. Simbolo eracliteo del divenire, esso segna per le cose che trascina nella propria corrente l’impossibilità di riemergere ancora alla vita. Tutto ciò che n’è travolto è destinato a precipitare nell’indistinto. Solo convergendo con lo sguardo dell’io pensato, l’io pensante può restituire i dettagli di un simile scenario abitato da spettri e ombre di una storia parallela e difforme rispetto a quella presente. Il viaggiatore che narra è ben consapevole del fatto che l’altro da lui, in cammino sulla sponda opposta, non potrà più lasciare memoria di sé in quanto immagine ineludibilmente afferente al passato. Così divise, le due parti dell’io non potranno che ricongiungersi nell’esito ultimo dell’esistenza, ovvero nella morte: «la vita se ne va/ allegramente con i fantasmi che non hanno peso». Majellaro medita sulla precarietà del vivere, in un dialogo ininterrotto con un presente senza tempo, privo di raccordi con il passato e il futuro. Il viaggio è metafora di un percorso che il poeta compie in solitudine per orchestrare sulla pagina tutti quei moti che lo inducono alla ricerca di un senso:

Addio. Quale lettera vi scriverò./Se vi saranno giorni come questi. Se la scena/ sarà suggestiva. Se rami di ciliegio. Se l’uccello/ migratore./ Il poeta dispone di immagini./È una metafora cieca./ Il grande tema della solitudine viene variamente orchestrato./ In quanto al solito tema della vita non c’è stato./ O non ce ne siamo accorti./ Il senso della convenzione, la generalità dei sentimenti, il profondo./ (…) il personaggio non sapeva a quale porta bussare./ Stava seduto su terra teatrale con pubblico davanti.

L’autore è al centro di una regia nella quale è regista e attore di se stesso. L’addio in cui si profonde è l’incipit di una prova di scena, come se stesse immaginando il momento in cui accomiatarsi dalla vita. Nel rivolgersi a un voi che potrebbe coincidere con il pubblico di eventuali lettori, identifica il poeta con «una metafora cieca» in quanto foriero di immagini con lui connaturate. E proprio la coscienza dell’essere poeta ridesta il grande dissidio tra solitudine e vita ergendosi a quesito centrale del testo. Majellaro è spettatore di sé e della propria vita: se la vede scorrere per immagini e frammenti senza mai realizzarla appieno. Solo la poesia fornisce consolanti ipotesi di evasione:

l’isola che si vede/ aspetto che il vento la spinga/ scrivo intanto una poesia sull’isola/ che posso raggiungere/ con una piccola barca a remi.

Malgrado ciò, arduo è traversare anche un pezzo di carta:

Puoi immaginare/ come sia arduo il cammino di un debole su un pezzo di carta./ Non scritto ma immaginato tu sei quello/ che ti dicono di essere su questa terra desolata/ una pagina su cui ancora l’impronta/ non  ha prodotto la pista./ Il foglio di carta/ è un pianeta, su un verso le montagne sull’altro le valli,/ i cieli sono due e puoi vedere i piedi combaciare/ con quelli dell’altro che ti è sotto (…)

L’approccio alla scrittura implica l’inizio di un cammino che, prima di approdare sul foglio, spinge il poeta ad affrontare il biancore della carta. È il dispiegarsi di una terra che nessuna impronta ha ancora segnato. Scrivere induce Majellaro a mettere in viaggio le proprie stesse radici e a decidere volta per volta nuove coordinate di senso. È un percorso che muove dall’ascolto del mondo verso l’intimità del pensiero e viceversa:

(…) Nel riposo serale/ bisogna liberare l’anima, scoprire la vita/ che ci ha preso in giro; c’è sempre una sedia/ a dondolo per numerare stelle e pianeti che stanno/ sempre allo stesso posto, per conoscere in quale computer/ dell’orologio sta nascosta l’ora che ci appartiene./ Alle volte sento il rumore delle radici degli alberi/ e la quieta follia dei fiori che mi accompagnano/ sotto la pergola quando bevo il caffè.

La contemplazione è l’atteggiamento tipico di chi guarda alle cose al fine di penetrarvi in profondità. L’atmosfera serale apre alla distensione dei sensi e alla possibilità di scrutare quante stelle e pianeti restano fissi nel cielo. Veri e propri tasselli di intensità visiva arricchiscono questo quadro delineando la facoltà poetica di essere tra le cose.

Attraverso una poesia dalle venature narrative, l’autore evoca e staglia sulla pagina immagini limpide di un quotidiano in perenne divenire e del quale è possibile cogliere il significato solo prendendo atto della solitudine dell’esistere. La metafora del viaggio è rappresentativa della propensione del poeta all’indagine attraverso gli strumenti del pensiero e dell’immaginazione. Uno scrivere denso di ormeggi e deiezioni dinnanzi a cui si spalanca impassibile l’occhio del poeta. Veggente di se stesso, come Sitta lo ha definito, Majellaro si contraddistingue per l’uso di una parola nella quale gli opposti sono compresenti in egual misura. Di qui il senso profondo della sua opera, centrata sul tentativo di raffigurare, mediante un pensiero nomade, l’inquieto aggirarsi dell’uomo in cerca di un significato.

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