I maestri (XVII) – Vittorio Bodini

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Quando fu l’ora

Quando fu l’ora
gli orologi avevano perduto la voce
e la pietra lunare del cui bagliore
sinistro si era nutrito il mio esilio
scivolò in mare dove qualcuno
un giorno la troverà, qualcuno che invidio
perché sarà come me triste e ilare
quand’io non potrò più esserlo. Camminerà sulle rive
dei miei pensieri di ora
credendo di essere solo, solo e diverso,
e un giorno, dopo una pioggia, in una grotta del cielo
vedrà un celeste limpido e disperato
(limpido e disperato amore mio!)
e li potrebbe scorgere, mestamente confuse,
le tracce dei miei passi nell’infinito.

*

Conosco appena le mani

Conosco appena le mani,
le scarpe che metto ai piedi.
Conosco il giorno e la notte
e i terrori del vento.
Ma gli anni? Dove son gli anni,
e tutti i libri che ho letto?
I volti amati si sfrondano
delle loro vicende,
non restano che i nomi.
Tutto nella memoria
cade a pezzi, sprofonda
senza rumore
nelle botole dei morti.
Ah, dove sono le acute presenze
del passato, le sue calde forme,
la cera su cui incidevano
i miei sentimenti?
Dove si nasconde il senso
delle cose che ho vissuto,
e i brividi lucenti
e i cieli dell’avventura?

*

Sera

La lezione di musica
bruca l’umido
nel mezzo della via,
sentinella perduta dell’autunno,
e in una scia di zucchero filato
si fa strada l’urlo dei Sioux.
Nessun tempo avrà speso così male
tanta sete d’ignoto:
compra educatamente biglietti di morte
ai botteghini la gente, i giornali
parlano di dischi volanti
da cui ciascuno spera una rivincita.

*

Io avevo una pietra

Io avevo una pietra
e questa pietra aveva un orizzonte
e l’orizzonte un desiderio
di spaccarsi, di fendersi
in melagrane,
in bianchi muri di calce
secondo un disegno che era
il disegno della mia morte.

È con la propria morte
che bisogna abitare,
la propria morte accettare
come la vuota ombra
d’un cane bianco, ritagliato
nella carta velina
che parte e torna
dai suoi viaggi nel nulla
e quelle corse, quel muso
alzato verso di noi
creano una tenerezza.

Ma ormai
senz’ombra
senza pietra come
come farò a sapere
dove sono, fino a che punto sono morto
o vivo
le cose da lasciare
quelle da prendere.
È la caverna, è la caverna.
È la caverna dell’uomo
che ha i pantaloni stirati.
Ma i ginocchi celesti dell’infanzia
scorticati, gloriosamente piagati
quale vecchio pallone
incalzano, gonfiato con la pompa
da bicicletta, attenti
a prevederne ogni rimbalzo falso?

E ancora:
quand’è che è cominciato tutto questo?

*

Senza nome

Colui che pronunzia o scrive per la prima volta la parola foschia
si vede a un tratto circondato e salutato da meli e mandorli in fiore
Ma quale sarà il vero nome del fico d’India?
Che dizionario usano
le nebbie incustodite come velieri d’erba?
Come si chiameranno in segreto fra loro
le luci della sera o degli aerei
le scintille le coppie gli stupori i veleni
o quelle ignote pupille che assaettano e graffiano nelle vie
e si lasciano dietro scie senza nome?
Che velo invalicabile di doppioni infiniti!
Una chiave ferita gira adagio nella toppa

*

Elegia

Come Leandro. I vetri che al passaggio
dei tram notturni tremano, l’ostile
grido dei galli, ed io come Leandro
per i fragili abissi ove tu vegli,
e non hai voce, fra scogliere urlanti.

Nome senza più sillabe, una notte
ti griderò nella pleura feroce
di quel buio elemento, caro tramite
un tempo alle tue viole. Veglierai
tu forse fino all’alba, e ai primi raggi,
di neri crespi coprirai gli specchi
dove tutto è finito.





Nota bio/bibliografica di Vittorio Bodini su Wikipedia.org

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