Occaso: voci poetiche dal Portogallo (XVI) – Shahd Wadi

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È qui tradotto in italiano un componimento in lingua portoghese dell’autrice palestinese Shahd Wadi, con testo originale e nota biografica a seguire.

La pioggia di Gelsomini

Il mio testo è un popolo.

Non dirò.

Solo il mai rimuoverà la mia rabbia dopo rabbia dalla sua fossa cava estremamente vuota.

Non dirò quanti sono. Non formulerò un numero che, nel frattempo, è cambiato, che, nel frattempo, è cambiato, che, nel frattempo, è cambiato, di persone eternamente rimaste. Per esser palestinesi, scomparvero per sempre dal luogo verso il quale fuggirono. Sono morte senza cena. Nella loro gola, neanche uno sputo d’acqua. Non le trasformerò, ancora una volta, in un numero esiliato, adatto a una notizia da piè di pagina.

Macché poesia! Non condividerò storie d’amore, di coraggio e di resilienza. Che si fotta la resilienza. Il mio essere è già stato interrotto dinnanzi a un confine, ma finanche le mie parole sono già state sterminate.

Il mio testo è già stato eliminato.

Il nodo alla mia gola è ora una fossa comune: “Da tanto trasportare le bare dei miei amici, la mia spalla s’è fatta cimitero.” Quale verso reggerebbe di fianco alla domanda: “papà, i morti vanno in cielo, lo stesso luogo da dove ci cadono le bombe addosso?”.

Il canto non è più un’arma.

Nulla disintaserà il mio tanto parlare che in me si tace. Mai riuscirò a reclamare indietro, alle orecchie deliberatamente sorde, le grida che echeggiano nel mio corpo stupidamente distante: “Questa cenere una volta era mio figlio.”

Pausa. Il mio testo è silenzio.

Fino a dove può estendersi il fondo di questo abisso? Non mi pronuncerò sulle schegge di notizie che perforano solo certuni occhi. Non spingerò i cadaveri della mia gente cucchiaio a cucchiaio nelle bocche immonde, provando a dimostrare che non ci siamo soffocati da soli.

Oh, mondo, sei lì?

Il giornalista sta finalmente annunciando l’arrivo dell’unica sopravvissuta: “nessuno sa chi sia, neanche lei stessa.”

Il mio testo è un’incognita.

Non chiamerò più nessuno per mostrare le tante, tante, tante vite cadute sulle mie dita incollate a un cellulare. Non dimostrerò che erano realmente vite, né che erano umane.

Non sarò più figlia di un rifugiato palestinese, solo una figlia di puttana.

Non descriverò la foto di Eline, con un nome in sé biondo, morta con il suo piccolo chapeau, neppure permetterò che la vedano solo per i suoi occhi azzurri: era proprio una bambina. Non tradurrò il testamento di Haya, la giusta distribuzione dei suoi giocattoli, né i risparmi del suo salvadanaio che disobbedisce a qualunque interpretazione. Il mio testo è un salvadanaio. Zein ha ritrovato il suo fra i relitti della sua casa, ma ora a nulla serve comprare il letto per il quale risparmiava. E il bimbo senza nome, starà scavando fra le macerie per trovare la sua famiglia?

Il mio testo sono macerie senza nome.

No. Neppure svuoterò qui i sacchi letteralmente pieni di resti di figli, sono solo sacchi e di plastica, pieni di spazzatura umana: noi.

Il mio testo siamo noi in sacchi di plastica.

La mia voce è rimasta roca dall’utilizzare le maiuscole nei termini detti giusti: Diritto Internazionale, Risoluzione delle Nazioni Unite, Autodeterminazione, ma a me chi mi determina?

L’amico di Nour ha perduto tutti i suoi amici, “un quartiere è andato distrutto”. Il mio testo è un quartiere.

Accosto il mio schermo alla spalla di Mariam mentre piange “neanche per l’orrore che si è abbattuto su di noi, ma per la negazione che ciò ci stia accadendo.” Samaher non ha pianto come aveva promesso, “lasciandosi scappare appena due piccole lacrime inesistenti, affinché la diga non si rompa per i suoi gemiti.” Senza piangere ha evitato la morte, abdicando del diritto d’autrice, lasciando da scaricare il suo romanzo, che arriva al mio schermo direttamente da Gaza.

Il mio testo è caricato e scaricato da Gaza.

Due lati? No, il coro della mia anima non ripeterà più: prigione a cielo aperto, apartheid, occupato – occupante, oppresso – oppressore, Nakba, Naksa, 1948, 1967, 2023, ma perché diamine questo terremoto non scuote nessuno?

Il mio testo è un terremoto.

Perché parlare dei sogni di Farah se adesso si riassumono a un momento giornaliero in cui riceve il messaggio: “Sono ancora viva”. Qualunque chiamata è un potenziale addio, qualunque momento è un potenziale momento, comunque, in una telefonata miracolosamente possibile, tra un bombardamento e l’altro, la madre di Kawther non si dimentica d’esser madre: “che ne è stato della tua menta, figlia mia?”.

Fida Falastin. Per te, Palestina,” disse l’uomo che risparmiò 40 anni per costruire la casa ridotta ormai in polvere. Luce.

La mia lingua è già rimasta paralizzata, immaginando lo stendibiancheria di Hiba. Un quartiere intero s’è esiliato lasciando la solitudine su uno stendibiancheria lontano sulla finestra di una vicina di casa. Hiba risponde, stendendo asciugamani, ai quali cambia colore e posizione tutti i giorni. La donna della finestra distante, fa la stessa cosa. Un asciugamano, sono viva. Un altro, sono verde. Sono con te. Siamo insieme. Resistiamo.

Ma quale prosa!

Sì, ho sentito bene, egli ha detto: “Sulle rovine della mia casa, dormirò. Qui rimarrò”. Ma quel mio popolo palestinese non ha ancora abbandonato la malattia incurabile chiamata speranza?

Il mio testo è incurabile.

Mentre le piovevano rockets sulla testa, Eman diceva: “prego che piovano gelsomini”.

Con lei, scuoterò i miei corpi morti, innalzerò la mia bandiera e la mia danza. Un giorno ci sarà pioggia di gelsomini.

Il mio testo è pioggia di gelsomini.

[A chuva de Jasmin // O meu texto é um povo. / Não vou dizer. / Só o nunca irá tirar a minha raiva após raiva do seu escavado oco extremamente vazio. / Não pronunciarei quantos são. Não declararei um número que, entretanto, mudou, que, entretanto, mudou, que, entretanto, mudou de pessoas que eternamente ficaram. Por serem palestinianas, para sempre desapareceram do lugar para onde fugiram. Morreram sem jantar. Na sua garganta, nem sequer um cuspo de água. Não irei torná-las, mais uma vez, num número exilado, agora para uma notícia de rodapé. / Qual poema, pá! Não irei partilhar histórias de amor, de coragem e de resiliência.  Que se foda a resiliência. O meu ser já fui interrompido perante um termo, mas até as minhas palavras já foram exterminadas. / O meu texto já foi eliminado. / O nó na minha garganta é agora uma vala comum: “De tanto carregar caixões dos meus amigos, meu ombro tornou-se cemitério.” Que verso aguentaria ao lado da pergunta: “pai, os mortos vão para o céu, o mesmo lugar de onde nos caem as bombas?”. / A cantiga já não é uma arma. / Nada irá desentupir a minha tanta fala que em se mim cala. Nunca conseguirei clamar de volta, aos ouvidos deliberadamente surdos, os gritos que ecoam no meu corpo estupidamente distante: “Esta cinza era uma vez o meu filho.” / Pausa. O meu texto é silêncio. / Até onde pode ir o fundo deste abismo? Não me vou pronunciar sobre os estilhaços das notícias que furam apenas alguns olhos.  Não vou empurrar os cadáveres da minha gente colher a colher nas bocas imundas, tentando comprovar que nós não nos sufocámos a nós. / Ó mundo, estás aí? / O jornalista está a anunciar finalmente a chegada da única sobrevivente: “ninguém sabe quem é, nem ela própria.” / O meu texto é uma incógnita. / Não vou chamar mais ninguém para mostrar as tantas, tantas, tantas vidas que caíram nos meus dedos atados a um telemóvel. Não vou comprovar que realmente eram vidas, nem sequer humanas. / Jamais serei filha de um refugiado palestiniano, apenas filha da puta. / Não vou descrever a foto da Eline, com um nome em si loiro, morta com o seu pequeno chapeau, nem sequer permitir de só pelos seus olhos azuis a verem: era mesmo uma menina. Não vou traduzir o testamento de Haya, a distribuição justa dos seus brinquedos e da poupança do seu mealheiro que desobedece a qualquer interpretação. O meu texto é um mealheiro. Zein encontrou o seu nos destroços da sua casa, mas agora nada serve comprar a cama para a qual poupava. Estará o menino sem nome ainda a escavando os escombros para encontrar a sua família? / O meu texto são escombros sem nome. / Não vou. Não vou nem sequer esvaziar aqui os sacos literalmente cheios de restos de filhos, são apenas sacos e de plástico, cheios de lixo humano: nós. / O meu texto somos nós em sacos de plástico. / A minha voz ficou rouca de utilizar as maiúsculas nos termos ditos certos: Direito Internacional, Resoluções das Nações Unidas, Autodeterminação, mas a mim quem me determina? / O amigo de Nour perdeu todos os seus amigos, “um bairro partiu-se.” O meu texto é um bairro. / Encosto o meu ecrã ao ombro da Mariam enquanto chora “nem sequer pelo horror que se abateu sobre nós, mas pela negação de que nos esteja a acontecer.” Samaher não chorou como prometeu, “deixando escapar apenas duas pequenas lágrimas insistentes, para que a barragem não se rompa com os seus gemidos.” Sem chorar preveniu-se da morte, abdicando do direito de autora, colocando o seu romance para descarregar, que chega ao meu ecrã diretamente de Gaza. / O meu texto é carregado e descarregado de Gaza. / Dois lados? Não, o coro da minha alma jamais vai repetir: prisão a céu aberto, apartheid, ocupado – ocupante, oprimido – opressor, Nakba, Naksa, 1948, 1967, 2023, mas porque raio este terramoto não abana ninguém? / Meu texto é um terramoto. / Porque falar dos sonhos de Farah se agora se resumem a um momento diário em que recebe a mensagem: “Estou ainda viva”. Qualquer chamada é uma potencial despedida, qualquer momento é um potencial momento, mesmo assim, num telefonema milagrosamente possível, entre um bombardeamento e outro, a mãe de Kawther não se esquece de ser mãe: “que é feito da tua menta, filha?”. / “Fida Falaestin. Para ti Palestina,” disse o homem que poupou 40 anos para construir a casa que se tornou pó. Luz. / A minha língua já ficou paralisada, imaginando o estendal de Hiba. Um bairro inteiro exilou-se deixando a solidão num estendal longínquo na janela de uma vizinha. Hiba responde, estendendo toalhas, que muda de cor e posição todos os dias. A mulher da janela distante, faz o mesmo. Uma toalha, estou viva. Outra, estou de verde. Estou contigo. Estamos juntas. Resistirmos. / Prosa, o caraças! / Sim, eu ouvi bem, ele disse: “Por cima dos escombros da minha casa, dormirei. Aqui permanecerei”. Mas aquele meu povo palestiniano não largou ainda a tal doença incurável chamada esperança? / O meu texto é incurável. / Enquanto lhe choviam rockets na cabeça, Eman dizia: “rezo para que chova jasmim”. / Com ela, irei sacudir os meus corpos mortos, levantar a minha bandeira e a minha dança. Um dia haverá chuva de jasmim. / O meu texto é chuva de jasmim.]

Shahd Wadi è palestinese, cittadina del Portogallo e autrice di versi e prose in lingua portoghese. Si dedica ad attività di ricerca, traduzione, scrittura, curatela e consulenza artistica. La sua tesi di dottorato in Studi Femministi all’Università di Coimbra è servita come base per il libro Corpos na trouxa: histórias-artísticas-de-vida de mulheres palestinianas no exílio (CES, 2017). Si occupa di libertà, resistenza e di narrazioni artistiche nel contesto dell’occupazione israeliana della Palestina. Considera l’arte una testimonianza di vite. Anche della sua. Il testo qui tradotto «è stato ispirato dalle pubblicazioni del popolo palestinese libero», e pubblicato, nell’originale portoghese, sul sito Gerador, dal quale provengono anche alcune informazioni biografiche, mentre la foto-ritratto è tratta dal sito Alkantara e quella di copertina dal profilo Facebook della stessa autrice.

https://independent.academia.edu/WadiShahd

Occaso: voci poetiche dal Portogallo è una rubrica di bottega portosepolto, a cura e con traduzioni di Fabrizio Boscaglia.

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