In questa raccolta di cento poesie, la poetessa Franca Alaimo affronta una molteplicità di temi (l’intuizione poetica come momento di conoscenza e possibilità di trascendenza, l’amore, la solitudine, l’ascolto, il tempo fra nostalgia dell’infanzia e avanzare della vecchiaia); e lo fa dando alla propria produzione poetica un taglio simbolista sia nell’uso della lingua, evocativa e mai enunciativa, sia nell’utilizzo di immagini metaforiche che vanno ad innestarsi su quel sostrato psicologico comune a tutti che Jung chiama ‘inconscio collettivo’ che permette al lettore di decrittare ciò che di universale vi è nell’espressione artistica e di fruirla in quanto codice condiviso.
Il monologo interiore, capace di tradurre ogni suggestione esterna in valore dello spirito, alimenta una poesia i cui strumenti formali diventano gli utensili più naturali per affrontare un viaggio in versi attraverso mondo scritto ed esperienza vissuta, tra la contemporaneità più radicale e l’antico rivisitato con fulminanti déjà-vu che prendono la forma del pensiero al suo sorgere, in mezzo al brusio quotidiano, come la musica di un ruscello fra le rocce.
In una qualche parentela con la poetessa romena Nina Cassian (“Ricordare è un volo / all’indietro in un futuro / annunciato con certezza” […]) l’Alaimo avvicina le parole con un atteggiamento di sottile intensa viscerale apertura.
Di fronte a questa tenebra che è la vita, di fronte a questa disgregazione che è il mondo sensibile, la parola poetica, memore del suo stato aurorale, torna a muoversi per iniziativa dei propri atti, torna a decidere dei propri tracciati, ponendosi, fra lampi ed epifanie, solo al servizio del proprio accadere e, con esso, all’accadere che sempre si ripete, ma sempre in forme nuove: “Sono una che parla alle cose / e non ha misura. / Che sta dentro tane di neve. /La più sola, la più leggera. / Ornata di nomi, di versi, di canti.” […]
Lingua composita, mobile, duttile che cancella frontiere e distanze, riportandosi alla materia minima dei suoni, nel contesto fisico del respiro, dello sguardo, del sussurro, del silenzio: “Un coltello di fuoco / taglia la fronte del mare. / Sfoglio immagini d’aria / con la lingua dello sguardo.” È un procedere febbrile e ostinato, di parola in parola, verso la verità dell’essere, sempre lontana, ma pur sempre in vista. È un tornare per altri versi sullo stesso territorio, incessantemente, perché l’Alaimo è ben consapevole che la poesia sia il vuoto che si apre, il buco nel linguaggio, la sospensione.
È un continuo inoltrarsi verso una sorta di panteismo metafisico, ma senza febbre di possesso, dove scrittura e natura formano una perfetta osmosi, in cui la seconda presta sovente il lessico alla prima: “Nella giumella delle mani / la bella festa di un fiore. / Non pesa quasi nulla / la grazia del Regno.” E ancora: “Il sangue dei papaveri / zampilla nel vento. / Dissipata gioia. /Pozzo del cuore / senza più sorgente.” Dove il Deus super omnia è un punto di riferimentolontano e sfuggente: “Ho sentito il fiore, / con le dita, con gli occhi, / l’olfatto, ma non so dirlo. / Tutte le parole accartocciate. / Quella breve distanza / così incolmabile / tra l’indice di Dio / e quello di Adamo.”
Peraltro, la poesia di Franca Alaimo si distingue per la combinazione felice di reattività linguistica e particolarità di situazione, che si tratti della descrizione tenera e malinconica di sé stessa: (“Sono la bimba di ieri / che colora le labbra / col succo delle more, / e dice: io sono un fiore. / Non so quando, ma / diventerò una viola. / Mi alzerò su uno stelo / fluttuando nel cielo / come un aquilone.”) oppure di un colloquio scanzonato con i poeti: (“Andando tra terre e cieli / – pensieri di demoni / occhi di angeli – invertono l’alto e il basso, / sparpagliano e ricuciono / i lembi delle cose lacerate. Come bambini disegnano / stelle sghembe e dorate / sul foglio della notte nera. / Sciocchi e beati: i poeti.”)
O dell’ascolto delle condizioni necessarie per la memoria: (“Ormai la memoria / è un guscio vuoto / senza gheriglio: / somiglia / a un pugno striminzito / di cenere che scivola / fra le dita.”), l’amore: (Talvolta mi stringo alle parole / come fossero il Tuo corpo che mi manca / e le contemplo con lo stesso amore. / Di notte sono loro che mi pensano / e scrivono quelle lettere segrete / che solo per paura io non Ti mando.”) e il dolore: (“Per quanto mi srotoli / come una mappa / non mi percorro; / pensarmi mi confonde: / troppi lontani i bordi / troppo intricato il centro. / L’anima si difende / sotto il trotto del sangue.”)
In ogni caso chi parla è un io divenuto tutt’uno con la lingua, audace e diretto, capace di filtrare la realtà al di là dei cliché che legano il poetico all’“autentico”. È un io che mostra un fervore appassionato, implica un amore e insieme una severità interiore che tende all’estremo le corde dello stupore e della meraviglia: “Sempre più si assottiglia / quel troppo della meraviglia. / Risuona come un filo d’erba / all’orecchio del passero, / nel vento.” È un io che rende ogni cosa come a portata di mano, versi che sono parte di un superiore fluire, decifrato e fissato come attimo, fotogramma comunque assoluto dell’esperienza assoluta di vivere, fino ai soprassalti estremi della vecchiaia a cui il mondo più nulla concede: “Sotto la pesante coperta / del disincanto senile / sta soffocando Dio. / L’anima rantola / come un animale.”
Una poesia infine a cui si associa l’idea rilkiana che la parola possa custodire gli oggetti e le creature in un luogo di eternità invisibile: la soluzione al male è dunque estetica, anche se di un estetismo vagamente biblico: “Il primo incantamento / è il bianco del foglio / E poi la voglia di colmarlo di segni / e di fare di me l’angelo nunziante / un verbo nuovo per risciacquare / la lingua invecchiata del mondo, / per cantare l’eterno rifiorire / della mistica rosa di suoni bambini”.
Tutto questo su uno sfondo in cui appaiono piante, fiori, strade, albe, tramonti, stagioni, notti e giorni pieni di luce con cui l’Alaimo intrattiene il suo ininterrotto canto al mondo creato e la sua ‘utopia permanente’.
Tutto questo è il compimento di una poetessa che è anche lettrice raffinata, colta, curiosa e perciò critica, articolista e interprete generosa e instancabile di letteratura altrui, magari perché, come scrive Thomas Dumm nella sua Apologia della solitudine: “Noi scriviamo e leggiamo per dirci come essere soli insieme”.
Foto in copertina di maahid photos da Unsplash.
