Poesia e preghiera: viaggio attraverso il dolore e la ricerca di senso

Autore/a cura di:

Nota di lettura di Pietro Romano

Per alcuni mesi mi sono assentato dall’esercizio quotidiano della scrittura. Quando constato l’assenza dalla scrittura, rilevo una distanza da me stesso. Quella distanza, a guardarla adesso che scrivo durante il consueto viaggio di ritorno da Velletri a Roma, è una delle stazioni di sosta in cui scopro che il dolore si rinnova. Non sempre soffro di un dolore specifico; a volte, è un dolore difficile da integrare in un’esperienza di senso, proprio come la sofferenza che percepisco nell’apparente stato di assenza da sé da parte di alcuni dei miei allievi, in Casa Circondariale. Durante il viaggio, il vuoto di cui scrivo assume poco per volta lineamenti sfocati, simili a quelli del mio volto. Che a fatica io stia colmando la distanza di cui sopra? Non credo.

Anche l’esercizio quotidiano della lettura si è andato affievolendo, o meglio la spinta alla lettura, più che un esercizio, è andata trasformandosi nell’insolita propensione a riempire certe lacune di senso che durante le giornate, senza accorgermene, si fanno spazio nel mio sguardo. In esse, non di rado, avverto luoghi, rumori e volti, tanti, che caratterizzano il mio lavoro in Casa Circondariale. Per quanto ostile possa risultare lavorare in un ambiente carcerario, tuttavia, è in quei corridoi che in qualche modo, tra le voci dei detenuti, gli odori delle cucine e l’andirivieni della polizia penitenziaria, il bisogno di sacro si rende palpabile, umano.

Ho così letto, in modo saltuario, alcune delle poesie contenute in “Versi a Dio, Antologia della poesia religiosa” (Crocetti, 2024, a cura di Davide Brullo, Antonio Spadaro, Nicola Crocetti, con una Lettera ai poeti di Papa Francesco). La necessità di attribuire senso al dolore altrui e alle vicende quotidiane, quelle proprie o che costellano la cronaca, mi si è radicata in una forma che ignoravo, o potevo soltanto immaginare: quella di un universo silenzioso e nel contempo formicolante, regimentata da oscure leggi kafkiane, inafferrabili e minacciose. Inoltre, le parole, quando imbrigliate in un sistema gerarchicamente organizzato, si impoveriscono di significato, perdono il loro bagliore luminoso, cessano di avere una funzione evocativa. E nondimeno, malgrado tra le sbarre di una prigione la luce filtri a stento, molti dei miei studenti non smettono di pregare né di interrogarsi su chi o cosa alimenti le loro vite. Molti di loro sono colti: alcuni hanno una preparazione filosofica e letteraria, altri ingegneristica o scientifica unita a una visione imprenditoriale, altri infine, non avendo concluso gli studi ed essendo miei coetanei, conoscono le leggi della strada e della sopravvivenza. E tuttavia, quando li chiamo a esprimersi nelle forme più disparate della scrittura, ecco venir fuori, in modi diversi e personali, immaginari e risorse linguistiche che si rifanno ai grandi interrogativi sull’esistenza. In tali casi, per loro, la scrittura adempie a un’esperienza di raccoglimento interiore, di pacificazione, di poesia, di preghiera.

Antonio Spadaro scrive, a introduzione del volume summenzionato, del connubio tra poesia e preghiera:

Preghiera e poesia costituiscono un binomio che ha accompagnato costantemente la storia dell’esperienza religiosa. Spesso la poesia raggiunge un tempo già reso “poetico”, per così dire, dalle devozioni e dai rituali che in esso si celebrano. La sua funzione è quella dell’accompagnamento, dell’evocazione e dell’approfondimento orante e meditativo. Le risorse del linguaggio poetico sono più ampie rispetto a quelle del linguaggio discorsivo e possono dar vita a una cassa di risonanza per gli interrogativi e le attese fondamentali che l’uomo si pone riguardo al mondo e a sé stesso. La poesia può creare una vera e propria comunità degli animi che non si identifica con la comunità rituale, collocandosi su un piano diverso, ma che a quest’ultima può convergere.

L’esperienza religiosa non attiene solamente a qualcosa di prettamente culturale. Essa ha bisogno di silenzio e si rinfocola nell’attesa viva dell’esperienza che si rinnova. Qualunque esperienza può definirsi sacra se conduce a un interrogativo e di conseguenza a una visione che non è totale ma che si riduce a uno stato di nostalgia, a uno stato di mancanza. L’incompiutezza è sacra, perché preludio a una necessità di esprimersi.

Certo, non è facile comporre un’antologia destinata a far confluire in sé “versi a Dio”. Sono tante le questioni da prendere in esame e ciascuna da inscriversi nell’ambito di una ricerca più ampia, spesso priva di risoluzione:

Queste raccolte generalmente considerano una scelta di fondo che riguarda i criteri di selezione. Quali poesie selezionare? Quelle di poeti “religiosi”, la cui poesia cioè si comprende soltanto all’interno di una dialettica di fede, o anche quelle di “laici” o persino dei poeti chiaramente agnostici? Selezionare innanzitutto in base alla forza del contenuto o alla dignità della forma? Qualcuno predilige come criterio l’ispirazione esplicitamente religiosa e dunque anche l’ispirazione che si esprime in forma orante. In questo caso si valuta la meditazione poetica che non si ferma in espressioni vaghe della sensibilità del soprannaturale o dell’esteriorità, magari favolosa, del divino, ma in una ricerca più precisa e orientata, dichiarando a chiare lettere che non convince chi dichiara che la poesia è sempre religiosa. Queste raccolte mirano a precisare il problema teorico della validità letteraria del fondamento spirituale. E si deve precisare che quel che è perduto dal punto di vista di una compiuta ortodossia nel contesto di una fede senza discussioni, è in compenso inverato nella completa manifestazione dell’individuo, compresi gli angoscianti sottofondi, il trasparente deflusso dell’anima.

Il volume si articola secondo precise coordinate storico-culturali e geografiche, come per disegnare la varietà dei panorami di senso che secoli di storia e svariate generazioni di uomini e culture hanno provato a tracciare. Interessante è constatare in che modo la ricerca dell’origine, e dunque di un archetipo, si declini di immaginario in immaginario, mantenendo tratti costanti: ora, una pregnanza archetipica è presente nelle figure di animali, spesso elette a totem; ora, costellazioni di divinità sono venute a rappresentare gli elementi e i moti della natura; ora, la natura stessa, in molti casi, ha assunto connotazioni fascinose e pregne di mistero. C’è, alla base dell’antologia in sé, un’ispirazione comparativa, che spinge il lettore a indagare come l’uomo, nel corso della sua storia e a prescindere da convincimenti dottrinali, abbia poi imbastito la sua ricerca. Si legga il testo a seguire:

Canto cosmologico

Il fuoco diventa scuro, il legno diventa nero!
La fiamma sta per estinguersi, su di noi la sciagura!
Su di noi la sciagura, o Khmvum!
Khmvum si mette in cammino,
sulla strada che porta al sole.
Nella sua mano splende l’arcobaleno
l’arco del cacciatore lassù.
Ha inteso la voce dei suoi figli.

(Roberto Bazlen)

Il testo, nella traduzione di Roberto Bazlen, deriva dalla tradizione dei Pigmei dell’Africa equatoriale. Si noti come l’incipit preannunci la sciagura e nel contempo a questa si contrapponga un principio rigenerativo, personificato dalla figura di Khmuvum, in cammino verso il sole, in molte culture associato all’immagine di un dio.

O ancora si osservi come l’assenza di senso presso i Dinka del Sudan, laddove subentri l’esperienza dell’abbandono, della disperazione, si tramuti in un bisogno di regressione a una dimensione primitiva, costellata dall’immagine materna della luna, come nei due componimenti di seguito nella traduzione di Alfonso M. Di Nola

Nell’abbandono
Dio ci ha abbandonati.
Il creatore del sole ci rifiuta la vita.
O bianca luna,
il creatore del sole ci rifiuta la vita
Preghiera di un morente
Quand’anche vedessi un uomo odiarmi,
io l’amerei.
O Dio padre, aiutami, padre!
O Dio creatore, aiutami, padre!
Quand’anche vedessi un uomo odiarmi,
io l’amerei.

Significativa è la ricorrenza nel corso dei secoli di immagini e figure archetipiche tutte riconducibili a un’idea di origine e di sacralità:

Inno ad Amon

Per primo ha inaugurato l’esistenza,
Amon, venuto all’esistenza al principio
senza che il suo sorgere sia noto!
Nessun Dio prima di lui,
nessun altro come lui
per esprimere il suo aspetto.
Nessuna madre
gli ha mai dato un nome;
nessun padre lo ha mai generato
dicendo: “Eccomi!”.
Lui si è modellato il proprio uovo,
il possente dalla nascita misteriosa
lui ha creato la propria bellezza.
Dio divino, venuto
da sé all’esistenza.
Gli Dèi esistettero
quand’egli dette loro inizio.

(Dom Pierre Miquel e Matteo Perrini)

Amon, o Ammone, dio della tradizione egizia, presenta i tratti specifici che poi connotano altre divinità appartenenti ad altre dimensioni culturali: è l’essere creatore, immortale e divino, potente e imperituro. Caratteristica comune agli esseri umani d’altronde è ipotizzare che cosa abbia dato impulso all’esistenza e l’abbia poi plasmata, quando e come si sia realizzato il momento della creazione, come si deduce dalla mitologia sumerica e babilonese:

In quel giorno (tutto) era argilla
(2400 a.C.)

I

[ ]

i vermi possano scendere là,
la terra possa far risplendere la sua…,
nei pacifici prati e campi
egli riempì di acqua un buco (scavato) nel terreno.

II

An incedette da signore come un giovanotto,
Cielo e Terra si chiamarono vicendevolmente:
allora Enki (ed) Eridu non erano germogliati,
Enlil non esisteva (ancora),
Ninlil non esisteva (ancora).

III

Quando esso era argilla,
il bocciolo era ancora argilla,
i giorni non erano chiari,
le falci lunari non sorgevano ancora.

La preghiera, d’altronde, e quindi anche la poesia, hanno da sempre adempiuto al compito di riflettere l’immaginario collettivo. Così, nei testi precolombiani si legge:

Da Popol Vuh
(Regno Quiché, Guatemala; trascrizione: XVI secolo)

Questo è il racconto della grande quiete:
tutto taceva, vuoto il grembo celeste.
Questa fu la parola prima, il discorso degli inizi.
Non c’era uomo né bestia
uccello, pesce, granchio
albero, roccia, cavità, canyon
non c’era prato né bosco:
esisteva soltanto il cielo.
Il volto della terra era ignoto:
il mare soltanto, infinito deserto
e il gonfio grembo del cielo.
Nulla veniva raccolto
tranne la quiete. Nessun
moto – dorme il cielo.
Nulla esiste eretto.
Soltanto acqua – acqua
appagata, solitaria.
Nulla può esistere d’altro
perché tutto tace
nell’opera della notte.
Soli sono il Pastore e il Creatore
il Sovrano e il Serpente:
loro hanno creato il Figlio
ci hanno dato dei Figli.
Luminosi stavano in acqua
circonfusi dal piumaggio:
sono chiamati Quetzal.
Sono loro i sapienti
sapidi possessori del sapere.
L’unica cosa certa è il cielo.
Al Cuore del Cielo è dato
il nome di dio – lì si rintana.
Poi giunse il verbo.
Cuore del Cielo giunse

con Sovranità e Quetzal
il Serpente che arguisce la notte.
Essi parlarono. Pensarono.
Fecero accordi coagulando
parole e immagini. Poi andarono
e si fecero forza. Alla luce
diedero vita all’uomo – poi:
germinazione, creazione
di alberi e cespi; poi tutta la vita
avvenne, nell’oscurità.

Viene tracciata nei fatti una cosmogonia, come accade in Esiodo.  E tuttavia, fra le altre figure archetipiche, vi è l’acqua, da sempre immagine del divenire e dell’alternarsi della vita e della morte. Proprio l’alternarsi di vita e morte viene a costituire uno dei capisaldi sui quali si fonda l’indagine umana: come tutto muti e poi si ripeta, fedele a sé stesso e nel corso della storia. Il poeta Wang Wei scrive:

Solo, nel fitto canneto, siedo
e suono il mio liuto, mormorando.
Ignoto al mondo, chi si accorgerà
mai di me e della luna che splende?

Tutto viene spazzato via, presumibilmente senza lasciare traccia. Questa considerazione può allora rifarsi al tema biblico dell’ubi sunt, e dunque del destino ultimo che spetta a tutte le cose:

Da Sefer Yetzirah
(III-IV secolo)

Al principio, ventidue lettere.
Incideva, scavava, pesava
combinava e trasmutava:
con esse ha creato tutto
 tutto ha modellato.
Ventidue lettere
distillate dalla voce
forgiate dal respiro
innestate nella bocca
in cinque luoghi
suoni dalla gola
suoni dalle labbra
 suoni dal palato
 suoni dietro la trincea dei denti
 suoni nei lembi della lingua.
Ha creato la sostanza dal Nulla
da ciò che non c’era ciò che ora c’è
ha intagliato colonne colossali
quando l’aria era un’incudine.
Ha combinato e modellato
la creazione perché
fosse riassunta
dentro un singolo Nome:
il segno che ne reca
testimonianza: ventidue
lettere che legano
un singolo corpo.
Da ora in poi considera
ciò che bocca non può dire
ciò che orecchio non può udire.

Tutto deriva dal Nulla per tornare al Nulla: è un tema profondamente rilkiano, quello della metamorfosi e dei suoi opposti:

Nascita di Cristo

Non avessi tu il candore, come potrebbe
accadere a te ciò che rischiara ora la notte?
Guarda il Dio dell’ira sopra i popoli
si fa mite, e viene in te nel mondo.
Più grande te l’eri immaginato?
Cos’è la grandezza? Obliquamente attraverso ogni misura –
e tutte in sé le annulla – corre in linea retta il suo destino.
Una via così non l’ha neanche una stella.
Vedi, questi re sono grandi,
ed innanzi al tuo grembo a te trascinano
tesori, quelli che ritengono i più grandi,
e tu stupisci forse a questi doni –:
ma guarda, tra le falde del tuo panno,
come ora lui sul tutto passa oltre.
Tutta l’ambra che lontano, in mare, si trasporta,
ogni gioia d’oro e quell’aereo aroma che bruciando
si disperde nei sensi e si consuma:
di fulminea brevità fu tutto questo,
e alla fine solo fu rimpianto.
Ma (lo vedrai): Egli dà gioia.

(trad. di Lorenzo Gobbi)

La fulminea brevità che caratterizza la storia e che alla fine “fu solo rimpianto” implica in sé l’hic et nunc, la mutevolezza dell’ora presente, per usare una formula cara a Bonnefoy. E infatti, Rebora scrive:

Dall’imagine tesa

Dall’imagine tesa
Vigilo l’istante
Con imminenza di attesa –
E non aspetto nessuno:
Nell’ombra accesa
Spio il campanello
Che impercettibile spande
Un polline di suono –
E non aspetto nessuno:
Fra quattro mura
Stupefatte di spazio
Più che un deserto
Non aspetto nessuno:
Ma deve venire,
Verrà, se resisto
A sbocciare non visto,
Verrà d’improvviso,
Quando meno l’avverto:
Verrà quasi perdono
Di quanto fa morire,
Verrà a farmi certo
Del suo e mio tesoro,
Verrà come ristoro
Delle mie e sue pene,
Verrà, forse già viene
Il suo bisbiglio.

Lasciarsi le macerie alle spalle per cogliere nel naufragio l’indizio di qualcosa di più alto, di assoluto, questo si può ricavare dalla poesia ungarettiana:

Preghiera

Quando mi desterò
dal barbaglio della promiscuità
in una limpida e attonita sfera
Quando il mio peso mi sarà leggero
Il naufragio concedimi Signore
di quel giovane giorno al primo grido
Per infine riconoscere la propria umanità, come Miłosz:
Veni Creator
Vieni, Spirito Santo,
piegando (oppure no) l’erba,
mostrandoti (oppure no) con una lingua di fiamma sul capo,
al tempo delle fienagioni, o quando il trattore esce per la prima aratura
nella valle dei boschetti di noci, o quando la neve
seppellisce gli abeti storpi nella Sierra Nevada.
Sono solo un uomo, ho quindi bisogno di segni visibili,
il costruire scale di astrazioni mi stanca presto.
Ho chiesto più volte, lo sai, che la figura in chiesa
levasse per me la mano, una volta, un’unica volta.
Capisco però che i segni possono essere soltanto umani.
Desta dunque un uomo, in un posto qualsiasi della terra
(non me, perché ho comunque il senso della decenza)
e permetti che guardandolo io possa ammirare Te.

Merito di quest’antologia è dunque non solo la messa a confronto tra più dottrine religiose e nel corso dei secoli, ma anche riuscire a porre in rilievo il carattere universale di date categorie umane nel corso delle generazioni. Cercare il sacro anche nei luoghi che non oseremmo pensare o che in qualche modo restano esclusi dal nostro immaginario quotidiano. Mostrare infine che intrinseca a ogni esistenza è la costante ricerca di senso, ovunque poi il sentiero della vita conduca.