La lingua degli uccelli (XV) – I prìncipi dell’aria/1. Lo Sparviero e l’Astore

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con poesie di Grazia Deledda, Sebastiano Satta, Norbert C. Kaser e con versi di Yves Bonnefoy e Adam Zagajewski

Se l’Aquila è la regina dei cieli (e ci perdonino i maschi Aquila, se decliniamo la monarchia al femminile…) numerosi sono allegoricamente i prìncipi e le principesse: nibbi, albanelle, falchi, gheppi, sparvieri, poiane ecc. Ma, attenzione: come già anticipato nell’articolo sull’Aquila (XIII) questi nobili volatori appartengono a due casate principali, due ordini, per dirla con la tassonomia zoologica. Sono in definitiva due gli ordini che includono i cosiddetti rapaci diurni: gli Accipitriformi (aquile, nibbi, sparvieri, poiane ecc) e i Falconiformi (falchi, gheppi, grillai, lodolai ecc e i caracara, rapaci del Nuovo Mondo). La loro somiglianza morfologica è dovuta non a progenitori comuni, ma a un adattamento all’ambiente e alla funzione. Un mammifero d’acqua, pensiamo per esempio al delfino, somiglia molto di più ad altre creature d’acqua, cioè ai pesci, che ai mammiferi di terra con le zampe…

Per sommissimi capi gli Accipitridi sono maestri di volo planato, capaci di veleggiare sfruttando le correnti d’aria ascensionali, alcuni sanno rimanere immobili nell’aria, battendo velocemente le ali, nella posizione detta ‘spirito santo’, per scrutare meglio un punto del terreno dove l’uccello ha visto muoversi qualcosa. Il volo dei Falconidi è invece battente, rapido e irregolare, con frequenti interruzioni a ‘spirito santo’ e spettacolari picchiate. I Falconidi, inoltre, si distinguono dagli Accipitridi per le dimensioni in media più piccole, il becco più corto e munito di un dente e le ali terminanti a punta, a differenza di quelle arrotondate dei secondi.

Mi occuperò in questo e nel prossimo articolo dei parenti più stretti dell’Aquila, cioè i rapaci diurni della famiglia degli Accipitridi che, tra le specie più note e di pertinenza euroasiatica annovera, oltre la regina: sparvieri, astori, poiane, bianconi, albanelle e nibbi. Anche il Falco pecchiaiolo (o, semplicemente Pecchiaiolo) e il Falco giocoliere sono membri di questa famiglia e non dei Falconidi, ad onta del nome, a testimonianza sia della confondente similitudine tra i rappresentanti dei due ordini[1], che degli aggiornamenti, spesso su base filogenetica, della classificazione degli Aves, come di molti altri gruppi animali. Inoltre, il Falco pescatore appartiene a una terza famiglia, Pandionidi, di cui è l’unico rappresentante.

Detto ciò, quali caratteristiche o comportamenti di questi uccelli hanno colpito gli osservatori e, per i nostri fini in particolare, i poeti?

Conviene, a questo punto, procedere con qualche esempio più specifico, nel senso letterale del termine, anche se raramente una specie è la sola del suo genere e quindi, paradossalmente e con un gioco di parole, in questo caso dire generico è già abbastanza specifico!

I. Lo Sparviero e l’Astore

Lo Sparviero o Sparviere (Accipiter nisus) e l’Astore (Accipiter gentilis), si sono adattati all’ambiente boschivo e forestale (in Italia il primo è presente in tutta la penisola, isole maggiori comprese, mentre l’Astore – più grande – è più frequente su Alpi e Appennini). Le ali arrotondate e la lunga coda non danno loro una grande velocità in volo, ma una buona mobilità in spazi ristretti con repentini cambi di direzione. Questo essere rapaci e “audaci” nel volo, fa sì che in senso figurato “uno sparviero” è una persona “audace e rapace” al tempo stesso.
Non particolarmente orientata e influente è in realtà la simbologia, che mostra non rare valenze opposte, come abbiamo imparato a riconoscere per molti altri uccelli. Per esempio nella tradizione cristiana, sant’Antonio da Padova fa dello Sparviero un simbolo di giustizia, perché preda gli uccelli solo quando è in volo, ma altra iconografia lo vuole demoniaco, in quanto terrore delle colombe, anime pure, cui gli artigli del rapace squarciano il cuore.

La presenza nella simbologia e nelle tradizioni è quindi relativamente modesta, neppure paragonabile a quella ricchissima dell’Aquila e del Falco. Si motiva anche così la quasi totale assenza di questi rapaci diurni nella poesia italiana moderna e contemporanea. Inoltre, essendo rapaci boschivi, sparvieri ed astori, sono difficilmente avvistabili e la mancanza di occasione visiva non favorisce certo la loro presenza in letteratura. Un’ulteriore fattore credo stia nella similitudine con i falchi, sotto il cui nome “generico” – certamente più popolare – potrebbero essere stati inclusi in realtà diversi rapaci diurni meno conosciuti dai più.
Farò quindi, nel prosieguo dell’articolo, alcune di eccezioni, la prima delle quali è funzionale a rimarcare “l’ingerenza” dei falchi, giacché anche gli sparvieri venivano utilizzati per la falconeria, e uno di questi viene commiserato da Marco Valerio Marziale in un suo epigramma:

«Predone tra gli uccelli un tempo/ Ora servo di un uccellatore/ Li abbatte ma non per sé e se ne contrista.»[2]

Oltralpe, invece, qualche pregevole citazione è stata compiuta, quantomeno per lo Sparviero. Opero quindi una seconda motivata eccezione, riportando, qualche verso non italiano.

«Era uno sparviero,
Raggiungeva il nido scavato nel muro.
Stringeva nel becco un serpente morto.»

Sono alcuni tra i versi di L’epervier / Lo sparviero[3], di Yves Bonnefoy, i quali descrivono due aspetti: il secondo, verosimile, è relativo alla predazione, che avviene in gran preferenza alle spese di piccoli uccelli, ma che può comprendere anche piccoli mammiferi e rettili. L’etimologia, infatti, ne coglie l’aspetto saliente: dal «provenz. esparvier, e questo dal germ. sparwāri, propr. ‘aquila dei passeri’, cioè ‘uccello che caccia e mangia i passeri’» (Treccani.it). Il primo aspetto, riferito alla nidificazione, mi avrebbe invece lasciato qualche dubbio di realisticità, ché la specie tradizionalmente era presente nelle aree antropizzate e veniva descritta nidificante sempre in aree boschive o quantomeno di macchia. Ma sono sempre più frequenti, in realtà, gli avvistamenti del rapace in zone urbane.

Anche uno Sparviero descritto dal poeta polacco Adam Zagajewski nella poesia dal titolo Uno sparviero aleggia sull’autostrada, sembrerebbe fuoriuscito dal suo habitat di pertinenza ed “aleggiare” sull’autostrada. Ma siamo in Polonia e sia le questioni ambientali che quelle linguistiche (non disponendo, colpevolmente, al momento della versione in lingua originale) su cosa è stato tradotto per “sparviere” e per “aleggia” non mi consentono di esprimere ulteriori considerazioni, ma solo di riportare – siamo nell’esercizio della “seconda eccezione” – il breve testo nella traduzione di Marco Bruno[4]:

«Sara deluso – se cadrà
sulla lamiera, sulla benzina,
sui nastri di musica economica,
sui nostri angusti cuori.»

Terza e ultima eccezione, anche per emendare il silenzio quasi totale dei poeti anche sull’Astore, riporto un mio testo da Sull’improvviso, Arcipelago itaca, 2021 (p. 43), dove ex-post ritrovo coerentemente e sottolineo i concetti di “boschività” e i movimenti furtivi, e il senso di un passaggio percepito più che osservato:

«Un respiro improvviso spostò i rami
alti, l’imbroglio astuto delle foglie

qualcosa s’intravide, nel ritaglio cobalto:

uno sfarfallio. O una scheggia,
l’ala boschiva dell’astore o solo
         semplicemente        un raggio di sole

Semplicemente? mi irridesti, incredula

Il vento era cessato, il cielo già richiuso»


Tornando sull’Astore troviamo una curiosità linguistico-ornitologica. Partiamo da alcune strofe saffiche da:

Visioni di Sardegna di Grazia Deledda[5]

«Il tramonto è sublime sovra queste
vette selvagge: immenso disco d’oro,
rosso il sol caldo, e un lago d’ametista
è l’occidente.

Ad Oriente il mare, l’infinito
sogno del mare: come d’un occulto
pensiero l’ala viaggiante sciolta
nel luminoso

spazio e nel tempo, una lontana vela
candida e lenta nell’azzurro vola:
scendono i clivi alla pianura e il piano
sfuma nel mare.

Qui forse i padri nostri, in un lontano
tempo di lotte, vigilando, fieri,
erti su queste roccie, con gli acuti
occhi d’astore

volti al cerulo mare, la villosa
mano parata sull’adusta fronte,
spiavano le vele saracene
pronte all’assalto.

[…]»

La scrittrice nuorese utilizza con raffinatezza (è solo questo?) «acuti/ occhi d’astore», rimarcando la proverbiale vista acuta dei rapaci, che viene esemplificata dai più comuni sintagmi «vista d’aquila» o «occhio di falco» (adottato anche per definire una tecnica di ripresa slow motion utilizzata comunemente nel tennis, nella pallavolo e in altri sport).
Si deve però considerare che «i sardi dell’interno chiamano genericamente astore ogni specie di [rapace diurno – ndr] di medie dimensioni»[6] e quindi accoglierei il dubbio che si volesse citare il vero Accipiter gentilis (nella sottospecie isolana A. g. arrigonii) o non ci riferisse ad altro rapace qualsiasi. Ciò potrebbe valer anche per il seguente “avvistamento” del poeta, anch’egli nuorese, Sebastiano Satta (1867-1914) che tuttavia, dimostrò in molte delle sue poesie una precisa conoscenza della sua terra e della natura locale:

da Orthobène di Sebastiano Satta[7]

«Elci solenni, erboso limitare
Di eremi deserti, un volo d’astore
Nel mezzogiorno, palpiti di mare,
Una preghiera, un canto di pastore.

E giù Nuoro, soave e maledetta,
Cuor di Sardegna: e intorno, nell’aperto
Fulgore del mattino, il vasto serto
Dei monti, arsi di sole e di vendetta.»


Citando, per finire questo segmento sull’Astore, il poeta italiano germanofono Norbert Conrad Kaser (Bressanone, 1947 -Brunico, 1978) ricado, ma solo parzialmente, nella “seconda eccezione”, cioè nel concedermi di citare per quest’articolo – stanti le rare presenze specifiche nella poesia italiana – qualche verso non originariamente italofono. Ma ne vale la pena, sia perché viene ad essere testimoniata la presenza del rapace nell’areale alpino, sia per quello straordinario «sbranagalline» finale, nella traduzione di W. Menapace.

da: canto della povertà di idee di Norbert C. Kaser[8]

terra amata
fatta di campanacci &
risse da osteria

figlia del clima
madre dell’uva

sbuffare dei venti
vette rosseggianti
su fiumi verdi
& ai piedi
           un drago abbattuto
vicoli familiari
senso civico fiero coraggio contadino
nemica del terrone & peggio
di lui

figlia del clima
madre dell’uva

intimi paesi
grembiule blu & tori
autonoma
pagani in divisa degli schützen
pompieri musica

salteri cetre nessuno
sa cantare lo jodel

consacrata al cuore del dio

& su tutto si libra l’astore sbranagalline


[1] Nell’Antico Egitto, giusto per un aneddoto su questa similitudine, lo Sparviero (Accipiter nisus) veniva confuso con il Falco e considerato sacro ad Horus, dio dalle sembianze di falco (A. Cattabiani, cit., p. 490)

[2] Marco Valerio Marziale, Epigrammi, 217, in Libro XIV, Einaudi, 1964, trad. di G. Ceronetti, in M. Petazzini, cit., p. 903

[3] Yves Bonnefoy, Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve, trad. di D. Bracaglia, Einaudi, 2001, p. 17

[4] Adam Zagajewski, Guarire dal silenzio, Mondadori, trad. di M. Buono, 2020

[5] da: La piccola rivista, Cagliari, November 9, 1899, n. 22

[6] Domenico Ruiu, Il silenzio dell’astore, sul sito della Associazione OrthobenEssere Onlus

[7] Sebastiano Satta, Canti del salto e della tanca, Il nuraghe, 1924

[8] Norbert Conrad Kaser, Rancore mi cresce nel ventre. Poesia & prosa 1968-1978, a cura di T. Colleselli, trad. di W. Menapace, Alphabeta, 2017

Fotografia in copertina: “Sparviero, astore e girfalcodi Antoine Chazal (1793 † 1854) – intervento su dettaglio

2 risposte a “La lingua degli uccelli (XV) – I prìncipi dell’aria/1. Lo Sparviero e l’Astore”

  1. Avatar La lingua degli uccelli (XVII)- Falchi e falconieri, gheppi e “non falchi” – Parte prima – bottega portosepolto

    […] attualmente nordeuropea), il Falco sacro (F. cherrug) il Falco pellegrino. Abbiamo visto, nel paragrafo XV, come anche lo Sparviero (o Sparviere) fosse utilizzato per la falconeria. Il sonetto Di settembre […]

  2. Avatar La lingua degli uccelli (XVI) – I prìncipi dell’aria/2. Poiana, Nibbi, Biancone – bottega portosepolto

    […] Nel precedente articolo, specificando ancora una volta che i Falchi appartengono ad un ordine diverso, ho iniziato la ricognizione nella poesia italiana moderna e contemporanea, sulla presenza dei parenti più stretti dell’Aquila, cioè i rapaci diurni dell’ordine degli Accipitriformi e della famiglia degli Accipitridi, avvistando tra i versi le rare presenze dei boschivi Sparvieri e Astori.Più testimonianze poetiche sono invece reperibili per quanto riguarda la Poiana (Buteo buteo, Poiana comune) e il mio letterariamente prediletto Nibbio, che declinerò al plurale, perché principalmente due sono le specie visibili sui cieli italici: il Nibbio bruno (Milvus migrans), più piccolo e diffuso, e il Nibbio reale (Milvus milvus), più grande e presente soprattutto nell’Italia insulare e meridionale. Entrambi caratterizzati dalla distintiva coda biforcuta.La Poiana è l’accipitride più diffuso in Europa e in Italia sono presenti esemplari sia migranti che stanziali; la specie è in costante aumento e si registra una grande concentrazione di coppie in Pianura Padana occidentale. È facile avvistarla appollaiata su tralicci o alberi anche lungo i bordi delle autostrade o durante il volo di avvistamento a larghi cerchi.Ha regime alimentare poco esigente, spaziando dai piccoli mammiferi ai rettili, agli insetti e persino all’occorrenza a carogne. Il rapace non è – come anche il Nibbio – un grande cacciatore: già ironizzava Cecco Angiolieri su quanto fosse difficile «far pigliar la gru ad un bozzagro» (Sonetti, 87; “bozzagro” è una delle denominazioni arcaiche della Poiana, derivata dal suo nome latino/scientifico “buteo”).Le poiane – e anche i nibbi – spesso competono per il territorio con le cornacchie (Corvus cornix) che hanno l’abitudine di scacciarle attaccandole in gruppo. Il conflitto tra cornacchie e rapaci, cui non raramente mi è capitato di assistere (anche uno contro uno) ritorna nelle parole che Giancarlo Baroni fa pronunciare ai suoi merli del giardino di San Paolo: «…nibbio/ che ruba i rifiuti alla cornacchia» [1]Il profilo predatorio della Poiana ha importanza decisiva nel suo successo evolutivo ed è specchiato nella poesia di Umberto Piersanti, che da naturalistica si fa simbolica («simbolo dell’immanente morte» [2]) nell’eterno ed esiziale conflitto tra predatore e preda:la poiana di Umberto Piersanti [3]s’è alzata la poianaalta sui ramitremano nella terra ghiri e topi,tremano le lucertole, i raganinascosti non sfuggonoalla morte che s’avventaCome nei cieli o sui posatoi, appollaiata, è abbastanza facile avvistarla anche nelle poesie nostrane, talora «Faccia a faccia/ sul dirupo» come accade a Pier Luigi Bacchini [4] o descritta in maniera diretta ed essenziale, come da Annalisa Manstretta («Sta sopra un alto posatoio immobile/ la poiana, nella sua livrea invernale,/ […]/ il suo occhio taglia sicuro il paesaggio, lo scompone». [5])Lo stile asciutto e didascalico di Giampiero Neri ne descrive alcuni tratti con grande fedeltà: «è abbastanza comune», il volo è «in ampi cerchi», «calmo» e «solitario», l’occhio che scruta. Di cruda e straordinaria efficacia l’etichetta di specie non commestibile!Volano in ampi cerchi di Giampiero Neri[6]I Di questi boschi in partibus infideliumè abbastanza comune la poiana,dove qualche spuntone di rocciae mozziconi di sassiche si alzano da terra qua e làoffrono asilo e protezione. * Volano in ampi cerchidi un volo silenziosoindisturbate dagli abitanti del luogoche usano dividere le speciein commestibili o non commestibilie se commestibilile perseguitano con ogni mezzo,se no le ignorano completamente. II Dagli spalti del Dossoil paesaggio si apre sulla pianurae una lontana linea di alturene segna il confine.A una stessa orac’è una macchia più scurafra le foglie, un battito d’aliun volo calmo sulle cime degli alberi,la poiana che si apprestaai suoi compitidecide con una sola occhiata. III Del suo volo solitarioche volteggia nell’ariasi riflette un’ombra nell’erba,come una improntache si staglia nettaun istanteprima di scomparire.Il Nibbio. Poiane e nibbi non hanno nel simbolismo la grande rilevanza dell’Aquila, come abbiamo visto, o del Falco, come vedremo e non godono di attribuzioni particolari che non siano quelle comuni ai rapaci diurni (la predazione, la vista acuta, il volo). Tuttavia, il Nibbio, anche per manzoniana memoria, ha un certo (e non edificante) pedigree letterario, essendo così chiamato il capo dei bravi al servizio dell’Innominato. Figura rapace, certo, ma la cui compassione per i lamenti di Lucia, rapita, forse sono concausa della conversione dell’Innominato. In una interessante Tesi di Laurea, L’immagine del volatile nella lirica del Duecento, Beatrice Scapin, richiama l’etimologia del suo nome latino Milvus – che secondo Sant’Antonio da Padova deriverebbe da mollis avis – e ne correla le attribuzioni negative, trasferite in chiave moraleggiante all’uomo: mollezza, accidia, pigrizia. «Talmente pigro da non essere nemmeno considerato come un vero predatore», scrive Scapin. In contrapposizione, nel sonetto di Pallamidesse, La pena ch’ag[g]io cresce e non menova, al più rapace Astore. Anche, aggiunge l’autrice, nel sonetto di Guido Guinizzelli Volvol te levi, vecchia rabbïosa, il Nibbio è, per un “prìncipe dell’aria”, in squalificante compagnia di avvoltoi e corvi, animali che si cibano di cadaveri. [7]Pur meno frequente della Poiana, il Nibbio (nelle sue due principali specie italiche Milvus milvus, Nibbio bruno e Milvus migrans, Nibbio reale) è comunque nei rispettivi areali presenza non rara e preferisce per la caccia paesaggi aperti dove lo si può avvistare nel tipico volo a spirale e nella posa dello spirito santo. È pero altrettanto o forse più rappresentato della cugina nella poesia italiana moderna e contemporanea. Sicuramente in quella di chi scrive, che ne ha fatto quasi animale totemico, ma che, per opportunità e pudore qui lascerà solo qualche indicazione bibliografica. [8]Anche Leonardo Sinisgalli assunse il Nibbio come animale simbolico; non tanto perché ne ritrasse uno in una sua nota poesia, Lucania, ma perché con esso raccontò di identificarsi: «Il nibbio vola più alto – sosteneva Sinisgalli, e ci ricordava che lui era partito nibbio e che nibbio voleva rimanere. – Continuerò a volare, e spero alto, e sempre con l’aggressività del nibbio che se vede un coniglio da mille metri, giù, negli arbusti, si butta e in un attimo lo afferra e se lo porta in cima alla montagna». [9] Descrizione alquanto contrastante con la fama medievale di uccello molle e pigro!Da Lucania di Leonardo Sinisgalli [10]Al pellegrino che s’affaccia ai suoi valichi,a chi scende per la stretta degli Alburnio fa il cammino delle pecore lungo le coste della Serra,al nibbio che rompe il filo dell’orizzontecon un rettile negli artigli, all’emigrante, al soldato,a chi torna dai santuari o dall’esilio, a chi dormenegli ovili, al pastore, al mezzadro, al mercante,la Lucania apre le sue lande,le sue valli dove i fiumi scorrono lenticome fiumi di polvere.[…]È soprattutto l’osservazione del volo del rapace, – in cerchi, in spirali, ruotando e volteggiando – (quindi di un aspetto tutt’altro che peculiare) che più ritorna nei versi, italiani e no: «quel volo a spirali serrate» scrive Salvatore Quasimodo [11] e Bruna Dell’Agnese vede «il nibbio/ ascendere in spirale/ o precipitare come una meteora»[12]. Così è anche in Fabio Pusterla, nel suo recente Tremalume, che inoltre specifica trattarsi di un Nibbio reale:Aareschlucht, 2 di Fabio Pusterla [13]Sembra immobile il nibbio realecalando sui prati falciati; soltanto la codas’increspa e le penne più screziate delle alipropiziano virate, come ditache accarezzassero l’aria invisibileil gelo delle valli o quel respiro sommessoche sale dal cieco mondo come gemito di fieno,dal lavoro interminabile degli uomini.Da giorni lo vedi arrivareplanare sparire dietro il vento,dietro la tua inquietudine che il nibbiovede o non vede dall’alto e sorvola noncurante,giungendo o non giungendo ai suoi confini.Se poiane e nibbi sono tra le specie più note della famiglia delle aquile, dedichiamo una poesia anche al più raro Biancone, Circaetus gallicus, il più grande dei “prìncipi dell’aria”, con una apertura alare di poco inferiore ai due metri. Si nutre esclusivamente di rettili, serpenti e in misura minore di lucertole. È un vero “sterminatore di serpenti”, che assale girando loro attorno e disorientandoli sbattendo le ali. È quindi realistico e preciso l’avvistamento di Umberto Piersanti, ancora nel folto dei sentieri, in particolare – come ci dice lo stesso autore – nella Gola del Furlo, nelle Marche. Uno dei due nuclei principali della specie nel nostro Paese è infatti nel Centro Italia, in areale tosco-laziale e limitrofo; l’altro occupa un’ampia porzione delle Alpi occidentali.il biancone di Umberto Piersanti [14]quando il cielo non è scuroe un po’ solustraecco il biancone alto fissa l’erbe,la serpe si nasconde dentro i rami,ma l’occhio del biancone non la perde,nel momento c’esce dalle fogliee nel prato s’avvia,solo un istante,s’avventae in alto la trascinaAnche il Falco pecchiaiolo – o, semplicemente Pecchiaiolo – e il Falco giocoliere sono membri – a dispetto del nome volgare – della famiglia delle Aquile e non di quella dei Falchi, ma d’essi ne parleremo nel prossimo capitolo sul Falco. […]