Charles Wright: il doppio dello sguardo nella metafisica del quotidiano

Autore/a cura di:

a cura di Pietro Romano
fotografia in copertina di Pietro Romano

 

Littlefoot di Charles Wright (Crocetti 2023, traduzione di Antonella Francini) è, colto nella sua interezza, il dagherrotipo di un’esistenza che intende consegnare al lettore una raffigurazione tangibile del non-senso cui ogni cosa si accompagna. Il poeta canta, alla soglia dei suoi settant’anni, passo dopo passo, una stenografia del Mistero che scandisce memorie, figure, paesaggi: un occhio inquieto, che fruga nell’inconsistenza di ciò che sulla terra il tempo abbandona. Ma ritrarre ciò che è per destino segnato dalla perdita e dalla consunzione significa intraprendere la via di una rappresentazione impossibile, tale da mettere in dubbio ogni umana certezza. Ed ecco dispiegarsi il pulviscolo del quotidiano, il confine sul vuoto, l’assenza. Wright consegna alle parole l’immagine di un’interiorità che si riconosce nel flusso costante di ogni cosa. Per tale ragione, Littlefoot non va inteso come frutto di un’operazione tesa a salvare dall’oblio tutto ciò che lo sguardo poetico ha registrato durante la propria permanenza sulla terra. Al contrario, è il canto a essere l’altro sguardo, o meglio, la dimensione privilegiata attraverso cui dare forma all’invisibile e così consegnare al lettore lo smacco di una ricerca che, per quanto ostinata o apparentemente fallimentare, si è misurata con l’indicibile facendo esperienza della sua smisuratezza. Nota a tal proposito Antonella Francini: 

“Ma qual è la poetica di Charles Wright che Littlefoot ripropone magnificamente in ogni sua sfaccettatura? Autore di formazione cristiana ma approdato a una sua personale versione di agnosticismo, Wright ha definito la sua poetica “la metafisica del quotidiano”, un’espressione che riassume bene la natura della sua scrittura, ovvero l’ostinata ricerca di una epifania che sveli il significato dell’esistenza e il mistero che avvolge ogni cosa visibile lavorando intorno a tre soggetti principali abbracciati in gioventù e mai abbandonati: il paesaggio, la lingua e l’idea del divino. Ma, per il laico Wright, che venera un dio in cui non crede, si tratta di una partita persa in partenza. Tuttavia, il poeta alter ego cui affida il formidabile compito ha le sue carte da giocare e lancia una sfida all’inconoscibile che, a tratti, sembra apparire davanti ai suoi occhi. E lo fa mettendo a fuoco il suo manifestarsi con una lingua sempre più aderente all’immagine, finché il ritratto non si sgrana e si dissolve nel nulla. Alla fotografia, e a tutto ciò che ruota intorno al fotografare, Wright si appoggia spesso per raccontare questa sua impresa. Le forme del mondo apparente – paesaggi diurni e notturni e tutto ciò che si muove in essi – “sono sagome dell’infinito”, ha detto in un’intervista, e il poeta tenta di coglierne i contorni in istantanee ricche di metafore e similitudini, in una lingua in stretta relazione con la musica e la pittura. Per Wright si tratta perciò di raffinare sempre più la sua tecnica piegando le parole verso il non rappresentabile per immaginare, melodicamente, iconograficamente e per via negativa, una luce oltre il quotidiano […] Come Icaro, personaggio mitologico, oltre a Orfeo, presente in Littlefoot, anche l’autore ha tentato un volo troppo arduo. Incapace di scrivere sulle pagine bianche del vento, né di far suo un altro genere di poesia, ha saputo tuttavia essere il “portavoce” dei “piccoli squittii perduti nel mondo naturale”

Eventi minuti e impercettibili riecheggiano nel canto. Tuttavia, la loro eco non è la stessa di quella in cui hanno avuto compimento, quanto un riverbero oltre l’istante, qualcosa di già altro e di non più ripetibile:

 

Forse non è scritto in un libro, ma è scritto −

non si torna indietro,

                                 non si ripete l’irripetibile.

Per quanto si guidi veloce, o guizzino fitte le foto sullo

schermo

della memoria, scatto dopo scatto.

È sempre un altro luogo,

                                       un’altra auto nel vialetto,

irriconoscibile qualcuno sta per aprire la porta.

Eppure, come nuvole nei loro nebulosi disegni,

tendiamo a riunirci

                              nel blu senza uscita

e tentiamo di rivivere le nostre assenze.

Che altro dobbiamo fare,

i figli amplificati di nuovo in un paese straniero,

la moglie in pensione,

                                  la fattoria come uccello nel nido e lontana?

Qualunque cosa avessi da dire, l’ho detta.

Tempo di tirar su la palizzata.

Ricordo come l’albero di mimosa

                                                   spalmava burro sull’ombra

oltre la camera nel seminterrato, immerso nella sua

peluria gialla.

Me ne nutrirò per un giorno o due.

Ricordo come la siepe di cicuta

                                                  bruciava nella luce obliqua.

 

Il canto reca in sé un’eterna promessa di addio. La percezione dell’assenza non è che lo spazio-tempo in cui il poeta rinnova la propria promessa di congedo dalla parola, mentre questa offre forse l’ultima possibilità di dare presenza a qualcosa che è già altrove. Le nuvole sono figurazione concreta dell’imminenza a cui tutte le cose sono da sempre convocate: esse si condensano e svaporano, “risucchiate dal gelo notturno”:

 

Nuvole a sbuffi e sbuffi di nuvole,

            le nove di sera, il cielo una coda di piccola puledra

che il gelo notturno risucchia.

Il tramonto. Impronte di zoccoli rosa sopra i Blue Ridge,

                                            soffici impronte di zoccoli.

Se questa fosse la fine, se fosse questa la fine di tutto,

come sarebbe facile finire

nell’avvolgersi e riavvolgersi dell’oscurità.

                                         E poi, dopo, il buio.

 

Sbuffi di nuvole nel cielo serale, raddensate come “una coda di piccola puledra”, dinanzi alla minaccia della fine: un’immobilità gelida, in parte addolcita da “impronte di zoccoli rosa sopra i Blue Ridge”, si spalanca di fronte al poeta come un punto in una cosmologia abissale. Il senso di declino che impronta questo poemetto è uno dei nodi tematici attorno a cui Wright fa orbitare la propria riflessione: la Bellezza che innerva il Mistero e lo rinfocola come approdo quieto cui infine consegnarsi senza indugi. E infatti, è proprio il gravitare intorno ai grandi interrogativi dell’esistenza il centro propulsore di questa poesia, densamente contemplativa e tesa talora a rappresentare lo “stremo del desiderio”, la volontà di riconciliarsi con il Tutto e forse così riuscire finalmente a decifrarne il segreto: 

 

Quale cielo è il più alto,

                                    questo quaggiù o quello lassù?

Quale blu è il blu più blu?

Priva di significato, la luna dovrebbe saperlo,

            la silenziosa luna piena specchio di chiacchiere.

Ma non lo sa, e nessuno discende a parlare per lei.

Il tempo nei suoi due mondi. Nessuna scelta.

 

Immagini archetipiche si affastellano nel corso della poesia: le nuvole, l’acqua, il cielo, la luna. Esse attengono a un’idea di origine e di perpetua rinascita, e nel contempo comunicano il senso di una distanza impossibile da colmare:

 

Tutto è musica, diceva il maestro, avendo più di una

mezza ragione,

la scomparsa delle cose

si aggiunge al bilancio,

                                  oscura serenità d’accettazione

che si muove come si muove l’acqua, in sé e fuori di sé.

Compatimento e freddo conforto −

                          prendine uno e lascia stare l’altro,

ricordando le correnti dell’Adige

rotte nel sole,

traslucide sulla sponda vicina,

                                      oro filato sull’altra.

 

Accettare l’essere nella globalità dei suoi aspetti: questa forse l’impresa più ardua cui la poesia di Wright invita. L’acqua, da sempre simbolo del divenire, è traslucida e riflettente: il suo è il flusso del mai più, cui lo sguardo si consegna, conscio di non potere nominare ciò che sfugge di continuo alla sua visione:

La luna come un disco rigido

                                             sopra la bassa vegetazione

screzia il giardino del vicino,

schermo notturno che si srotola lungo il Fiume del Cielo,

stenografia celestiale

non richiesta e indelebile

in rapidi fotogrammi sul libro del cielo d’inizio novembre.

Queste sono le ultime istruzioni,

                                                  di cui non capiamo nulla.

Ecco la tabella di marcia, la password,

                                                non capiamo né l’una né l’altra.

Brulicano sulla nostra lingua come mosche d’acqua.

S’appicciano alle dita,

                    si sistemano sulle nostre palpebre immobili,

come dovessimo soccorrerle,

come potessimo capire i loro piccoli denti e il ronzio d’ali.

 

La rappresentazione del particolare si svolge sempre come rappresentazione parziale e sommaria: il segreto è nel flusso in cui ogni cosa da sempre è immersa e da cui diviene: 

 

Ovunque sia stato, il fiume Holston mi è rimasto accanto,

come un sogno in fuga

                                  da un orifizio livellato dal tempo

aperto una volta nell’infanzia, che ora migra come una

strada

percorsa inconsapevolmente,

                                               rosa e immemore,

scortato da pesci e lastre di pietra,

il fondo s’infrange come montagne da cui si stacca,

biforcuto e freddo.

Il fiume è il negativo del tempo,

                                                sempre in dissolvenza,

sempre dietro a dov’era prima.

Come la memoria,

corrente troppo profonda, corrente troppo in superficie,

che si cancella e si reinventa mentre il mondo

le rimane immobile accanto, così,

                                 né troppo breve, né troppo grande.

Su questo nessuna incertezza, il negativo del tempo,

nessuna numerazione.

Come il vento quando si ferma, come le nuvole che

sono qui poi non più qui,

è la pura presenza dell’assenza.

Le ultime foglie di novembre cadendo lo raggiungono,

gli angeli, ali rimodellate sotto i loro impermeabili,

vivono in lui,

lo replicano le nostre vite, battiti irregolari, orologi

con una lancetta.

Dai salici e dai solchi melmosi a sud-ovest della Virginia,

da Saltville e Gate City, da Church Hill e New Hope,

il fiume si riduce

                       e risorge

dal suo impoverimento.

Così poco lo conosciamo, così poco lo ricordiamo.

Così simile al nostro sangue cui da energia,

                     lontano dagli occhi, lontano dalla mente

 

Come Mahler stessa teorizza, l’infanzia è l’età in cui ha inizio per il soggetto il processo di separazione-individuazione: il bambino apprende a “individuare” sé stesso gradualmente separandosi dalla figura materna e così instaurando i primi legami con il mondo. Evocare l’infanzia e i luoghi che l’hanno attraversata significa per Wright esplorare il proprio bisogno di regressione a una dimensione archetipica che, sebbene dispersa dal tempo, prolunga la sua eco nell’immaginario dell’uomo-poeta, alimentandone la spinta conoscitiva. In parte, il testo rievoca “I fiumi” di Ungaretti, seppure con le dovute distinzioni: mentre per Wright il fiume Holston è il “negativo del tempo”, “pura presenza dell’assenza”, alludendo alla dispersione che il tempo fa delle cose, il Serchio, il Nilo, la Senna e l’Isonzo riassumono per tappe l’autobiografia ungarettiana, esprimendo la possibilità di una rinascita nella natura e nella storia. In prefazione, Francini osserva: 

In Littlefoot Wright rinomina la sua poetica “l’eterna presenza dell’assenza” e la riformula dalla prospettiva di chi sente vicina la fine della vita, quasi fosse un fuoriuscito, ormai su “l’altra riva del fiume”, per usare una sua immagine dell’aldilà[…] Delle trentacinque sezioni di Littlefoot, dodici (dalla 20 alla 31) sono ambientate nella fattoria di famiglia in Montana, le altre a Charlottesville, in Virginia, dove il poeta risiede da moltissimi anni. In particolare è il backyard, il giardino sul retro della casa, la postazione privilegiata da cui partono le meditazioni e riaffiorano i ricordi di un pellegrino assai sedentario, che viaggia soprattutto con l’immaginazione. Il diario inizia dai primi mesi, quelli autunnali, del suo settantesimo anno (è nato il 25 agosto 1935) e si chiude con l’autunno seguente. In questo arco di tempo, il poeta racconta il suo mutato rapporto con la vita e con la morte ora che è iniziato “il decennio oscuro”, le immagini del passato si appannano e si fa più chiaro il destino umano di chi, come lui, da non credente, immagina un suo ricongiungimento con il mondo visibile, una “transustanziazione”, per usare un suo termine, nei mitografici paesaggi a lui cari e metaforicamente trasfigurati. 

L’immagine del fiume trova particolare rappresentazione anche in Roland Gaspar e nel suo Conoscenza della luce (Donzelli 2006, a cura di Maria Luisa Vezzali), opera anch’essa improntata a una forte spinta conoscitiva:

 

I nostri fiumi hanno preso fuoco!

Un uccello a volte leviga la luce- 

qui fa tardi. 

Noi andremo all’altro capo delle cose

a esplorare la faccia chiara della notte

 

Ambedue i poeti sembrano caratterizzati da un’attenzione particolare all’immagine della luce come immagine chiarificatrice, epifanica. Ogni spinta conoscitiva è figlia del desiderio: sporgersi da una sponda all’altra del fiume implica uno sconfinamento, una dislocazione dello sguardo verso un altrove del quale si avverte il richiamo ma a cui non è dato rispondere. In tal senso, il titolo Littlefoot appare emblematico di quanto è stato già osservato prima. Così Francini scrive a tal proposito: 

Littlefoot è il nome di un puledro che all’epoca della scrittura del libro era arrivato in Montana per far compagnia a Monte, un cavallo adulto. Lo avevano chiamato così per un difetto congenito a uno zoccolo che lo aveva reso zoppo da una gamba. L’animale, in quanto tale, non ha un ruolo importante nel libro. Entra in scena soltanto nella sezione 28 quando la vista dei cavalli che pascolano tranquilli nel prato avvia una meditazione sulla simbologia che accompagna l’intera razza tanto da suggerire, in linea con le tematiche abituali di Wright, i cavalli dell’Apocalisse. In quanto titolo, invece, la parola offre più possibilità di lettura. Littlefoot fa subito pensare, ad esempio, al nome di un nativo americano, il che sottolinea il legame del poemetto con la storia e lo spirito ancestrale dell’Appalachia. Ma tenendo disgiunte le due parti che la compongono, foot rimanda anche al piede metrico mentre l’aggettivo little modifica al ribasso il progetto annunciato sulla copertina per dirci che si tratta di una poesia in tono minore, forse un po’ zoppicante come il puledro. Vi avverto, sembra dirci il poeta con una certa modestia, questo è un “piccolo poema della luce”, scritto né in terza rima, né in sonetti o in blank verse, ma in versi che hanno una loro specifica andatura, che sono imperfetti perché non danno risposte, in primo luogo a chi li scrive. Il suo è il “canto solitario” che “non s’alza più di tre metri dal suolo/ e non va da nessuna parte” dichiara a metà del libro. Ecco allora che anche il titolo allude alla poetica di Wright, al dramma del non credente che ha “messo il naso nell’ignoto”, come ha scritto, “senza avere, a differenza di Dante, una mappa, né un punto d’ingresso, né un punto d’arrivo”. 

Dunque, un poema della luce che nel buio scava interpretando tutta la propria esperienza sulla base di una lontananza della vita dal Tutto. 

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