Immagine di copertina a cura di Pietro Romano
Il seguente contributo critico mira a indagare i richiami archetipici evocati dalla poesia di Franca Maria Catri. Le coordinate entro le quali la poeta codifica la propria espressione poetica sembrano diramarsi in una temporalità indefinita, dalla quale i versi prendono corpo, inanellando, in sequenza, immagini di vibrante intensità lirica, inerenti a un’idea di origine. La parola di Catri si pone nel segno di un travalicamento dello spazio liminare che separa il presente da un passato che si sente ineludibilmente perduto, nutrendo l’aspirazione dolente a un’innocenza prenatale, preverbale. I segni di tale anelito si trasmutano in un’inchiesta alle cui basi sono ravvisabili interrogativi di matrice heideggeriana:
Io non so bene chi sono
e se il mio nome
è più di un sasso caduto nel tempo
se la mia fronte
è più d’una domanda dimenticata tra i mondi.
Io non so perché la terra
è così grande sotto i miei piedi
il cielo un continente perduto
tra le braccia degli alberi.
Ma sei venuto e tutto s’è fatto semplice –
forse la terra
finisce all’orlo della tua ombra
il cielo è chiuso nelle tue mani tranquille.
Io credo in te nel tuo cuore
fermo come la casa
ancora il suono del tuo nome
sarà la mia preghiera stasera.
In questo componimento, tratto da Noi poveri del 1955, Catri affastella, attraverso modalità iterative, una serie di proposizioni interrogative indirette che nascono dalla consapevolezza di un vuoto di senso alle radici stesse dell’esistenza. La questione del nome che non si sa se sia «più di un sasso caduto nel tempo» attiene a una lacuna di significato che può essere parzialmente colmata solo nello spazio di un presente in cui si profili un “tu” cui rivolgersi. In tal senso, la frattura che separa l’esserci dalle istanze di senso implicite nell’esistenza si rivela colma di evento, in quanto presiede a una possibilità di apertura cosmologica. Tuttavia, l’impermanenza si mescola ai ricorsi che la storia promuove nel suo svolgersi, cosicché le cose risalgano dai loro abissi per ripetersi:
Ascolti la sua voce che risale abissi
– è ora di tornare –
e il tempo si chiudeva come ora
in questa corteccia di cose concluse.
Erano le strade sui carri i canti
il profumo struggente del fieno
le vesti umide di prati e d’amore.
Era il ritorno
era la casa dai bianchi muri infila
le mani chiuse su tenere memorie
ferme al confine dei davanzali nudi.
Ma troppe volte il glicine è sfiorito
sul tuo grembiule di tela.
Non hai che il tempo fermato dal suo nome
e la tua voce che chiama.
L’ora presente assolve dunque alla funzione di richiamare a sé la voce antenata che ispira il canto poetico corroborandolo di evento. Ciononostante, è la coscienza dell’irredimibilità della distanza che scinde l’istante del sentire dalla perdita di quella stessa voce a determinare, lungo l’asse delle generazioni, la necessità di nominare. Il nome come eco di un rimosso storico è per Catri carico di forza germinale che nutre la sostanza stessa delle cose, sottraendole all’indistinto e al molteplice. Così, proprio l’infinitezza che si dispiega nei processi di vita e di morte segna nell’addio le possibilità della permanenza e della ripetizione:
Sotto la luna è rimasta
la tua faccia bianca di Pierrot.
È uscita dalla mia vita una notte di maggio
il tempo fatto per le eterne promesse.
Tutte le parole della terra
non potrebbero riportarla al mio cuore
anche se non fossero così usate
e vecchie di secoli.
Noi siamo così piccoli e crediamo di empire il mondo
ma la vita è immensa fuori di noi
il maggio è pieno ancora di promesse
l’amore e la morte rimangono
a cesellare il volto degli uomini.
Io sono la ricamatrice di un piccolo pezzo di tela
che minimo lavoro è il cuore di un uomo.
Sotto la luna è rimasta la mia vita
era un’ombra appena quando ha segnato l’addio
sulla tua faccia bianca di Pierrot
Il testo di cui sopra, L’addio, da Quaderno di un medico del 1959, presenta una struttura circolare nelle cui ossature si innerva l’esigenza di ricondurre quel che si è perso al suo punto d’origine, sotto la luna. La parola poetica si rivela insufficiente a risarcire l’io dello strappo subìto, se non in quegli interstizi di senso in cui anche il superstite rimane in attesa sotto la luna, pregna di luce archetipica: «Tutte le parole della terra/non potrebbero riportarla al mio cuore/anche se non fossero così usate/e vecchie di secoli. / […] Sotto la luna è rimasta la mia vita/ era un’ombra appena quando ha segnato l’addio/sulla tua faccia bianca di Pierrot». L’amore è forza rinnovatrice, annulla età e distanze e concilia tra loro tutte le possibilità insite nel divenire:
Insieme abbiamo l’età del seme
essere possiamo senza principio né fine
raggelati nella nostra assordante perfezione.
Adorni di neri cerchi di lacrime
fronteggiarci possiamo in una danza ossessiva
sacrificare al nostro demone
di questo gorgo fare la nostra creazione.
Ma non è questo il senso.
Cadono ciechi giorni come piccioni
nel tempo inerte pendono come gocce le ore
ci porge il buio una meditata disperazione
grida la luce ai vetri
un uccello spaurito è l’alba.
Senza aiuto
scaldandoci le mani col fiato pietosamente
sciogliendo il dolore in una lunga strada di parole
metteremo coperte alle finestre
per la nostra vita che passa.
Noi verremo alla luce.
Ci chiamerà con la sua forza il giorno nuovo che nasce
di fili verdi si coprirà la terra
batterà il secolo alla nostra porta
faremo conca con le mani alla sua verità.
Si farà chiaro
e in tutta libertà ci ameremo.
per quanto ancora
abiteremo questo cielo usato
colore di pietra o di bacio
Il verso incipitario di questa lirica, Si farà chiaro, da Discorsi del sabato sera del 1966, suggerisce l’attenzione dell’autrice attorno all’immagine archetipica del «seme», che è qui da intendersi come età cui è possibile tornare solo se si è in comunione con l’altro. Il chiaro che viene dal dolore figura in un percorso attraverso cui la vita può rinascere a sé stessa valorizzando le opportunità rigenerative effuse nel cosmo.
Tuttavia, alle origini della parola poetica di Catri pare radicato un interrogativo di fondo che, nel progredire della sua produzione, si è conservato fino a diventare un elemento tematico caratterizzante, ovvero l’insensatezza dell’esserci con annessa la sua inevitabile condizione di solitudine:
in benevola pioggia
la processione dei pioppi
i grandi verdi e il silenzio
come se fosse sorda
questa fuga di cavallette sul foglio
linee goffe di schiene
negati i volti negato
il luogo dove sono
figure e furori
occhi di fango
e sangue sulle soglie bruciate
qui disertata guerra
che quando stacca il vento
la mia rosa resiste
rossa
Questa lirica, diserzione, tratta da Uccelli di passo (2013), si svolge come in un corpo a corpo con le parole, come se la condizione della poeta, nell’ineluttabilità dello scisma che disgiunge le parole dal loro inverarsi in cosa e viceversa, fosse quella di una partigiana della vita. Non casualmente, il motivo della rosa che resiste suo malgrado ricorre anche nella raccolta seguente, Ti chiedo al vento (2017):
in fondo al giorno
mangia colori
la penombra degli occhi
(chiedi alla gatta)
per dolce sordità
mi riconosco
in sillabe di fumo
e malincuore
oltre la stanca opacità delle tende
resiste la rosa sopita
nella sera dell’orto
è l’ora delle ortiche
Ogni particolare è nel testo adombrato da un senso di spossatezza che si irradia oltre lo spazio sensoriale in cui il soggetto si trova effuso. «Oltre la stanca opacità delle tende» la rosa dell’orto giace sopita nel bel mezzo di un accerchiamento di ortiche ostili, che minacciano la sua stessa sopravvivenza. L’immagine pare riecheggiare un sentire di leopardiana memoria: come la ginestra che, pur rischiando di essere piegata dalle lave impetuose del Vesuvio, innalza sempre e comunque la propria corolla al sole, allo stesso modo la rosa di Catri la quale, pur affaticata dagli anni ostili, si mantiene rossa e viva, conservando in sé tutto il proprio intimo bagliore.