
Nota a cura di Pietro Romano
Immagine a cura di Pietro Romano
L’acqua ricorre in poesia come metafigura attinente a un’idea di origine. Questo tema, che mi è molto caro, è stato ampiamente sviluppato nel volume di Bachelard, “Psicanalisi delle acque- Purificazione, morte e rinascita”, dove l’immagine dell’acqua assume diverse connotazioni psicoemotive a seconda del contesto, influenzando pertanto il linguaggio poetico. È nel concetto di archetipo, e quindi di origine, la compresenza degli opposti e la rappresentazione del divario che separa la vita dalla morte e viceversa. Non si tratta solo di una questione epistemologica, ma anche e soprattutto di un’impostazione mentale e psico-affettiva che permea di sé la riflessione umana nel corso delle generazioni e in ogni ambito della conoscenza.
Sopravvivenza in acqua (Arcipelago Itaca, 2025) di Alba Gnazi affianca alla semantica dell’acqua la nozione di temporalità: la poeta ripercorre a ritroso la narrazione, dall’estate, la quale costringe a resistere in apnea nel flusso vorticoso e violento degli eventi, sino all’illusione di quando, sporta la testa fuori dall’acqua, in realtà bisogna fronteggiare il gelo invernale. E l’inverno si concreta in tutta la sua durezza quando è la realtà ad abbattersi sulla nuova visione che l’io poetico si trova, suo malgrado, ad assumere: l’ineluttabilità della perdita e del lutto dell’imago paterna. Fulcro tematico dell’opera è un lutto prolungato, che si snoda tra affanni e attese, false speranze e prese di coscienza silenziose:
Scali il fiato: il fiato
ha tetti e tu
rovesci stupore
e costole tra le mani,
mantieni l’essere forte
con un assembramento
di intenzioni;
rosso in viso mentre
all’aria ti riassesti e disponi
paure e bestemmie al cielo
che di spalle vermiglio ti scuote
Cerchi negli occhi eventi
come segni e ti abbandoni
a un’intenerita pena
voltando il viso dove poco fa
lo avevo messo anch’io,
cercando comete
asfissiate nel muro,
la loro roca scia.
Gnazi descrive la postura psicologica che il padre assume di fronte al dolore fisico. È il corpo a sorreggere il peso di tutta la sofferenza che la mente è chiamata a sistematizzare, per tenersi salda alla vita e non sprofondare. Il respiro, che si fa sempre più breve, si arena dunque là dove la figlia poco prima aveva fatto cadere lo sguardo: è la raffigurazione di una semantica del dolore e dello scuotimento, in cui lo sguardo della figlia, che soffre impotente, si identifica con quello del genitore malato e strappato alle radici dell’esistenza. È, in quest’immagine, dolorosa e potente, l’istante in cui il figlio comprende che, per la cura del proprio genitore, si è sostituito a quest’ultimo, senza tuttavia trovare rimedio né medicamento utile.
E quando la ragione diventa insufficiente a spiegare il dolore, per lenirlo, la mente del malato si affida al tepore della memoria:
(…) tu
tieni la testa con la mano
guardi fuori – chissà che pensi
quale dio o bestemmia inventi
per spiegarti tutto quanto, intanto
che conti le lastre su in alto,
le ossa, i respiri, il varco
tra il tempo prima e il tempo smesso
e immagini
la notte dolce sulla tua collina,
il cane nel campo vicino, i fari stinti
giù alla curva, un silenzio senza eco
dalle case fino al fosso
a volte
ti basta quest’idea
per dormire più sereno
con una mano sul petto
e tutti i nomi, le facce, l’amore
posati sul cuore ingigantito e stanco
che tutto, tutti
tiene dentro.
Fuori dall’acqua, ha luogo la realizzazione del lutto: l’assenza inonda tutti i luoghi e gli oggetti abitati dal defunto, che sembrano sapere ed essere feriti a loro volta:
La casa, gli alberi, la terra
lo sanno.
Conservano. Osservano.
Ha un riflesso, l’assenza,
di abitudini e incompiutezza.
Gesti attesi, ripetuti nel tempo,
d’improvviso sottratti:
corteccia di un tronco
che cede sotto l’ascia
di tutte le Prime Volte.
La terra, gli alberi, la casa lo sanno.
Sapevano già. Forse
hanno sempre saputo,
serrati dentro a un però
che aveva il sapore
della più feroce,
inattaccabile speranza.
Quella che ora
tu morto
non c’è,
se non nei gesti inutili
– sfiorare quello che somiglia
al tuo viso, spianare
il velo orlato in pizzo,
una piega del vestito
salutare senza vedere
sentire senza ascoltare
cercando una stilla di
irriguardoso sollievo
(distoglimento
distrazione)
dal calpestio incessante
di
(quanto freddo fa qua dentro)
questa definitiva
imminente
dissoluzione
La dissoluzione è definitiva e irrimediabile e si dispiega in tutti coloro che devono proseguire senza il defunto. Il dolore della figlia è adesso rivolto alla madre, chiamata a sopravvivere alla perdita del proprio compagno di vita:
Si vedranno dopo i sogni,
dai sogni chiamandosi
prima del mattino;
mutano infinitesimi tratti
nell’urto armonico di molecole
e tempo;
continuamente si invitano,
nati al nuovo giorno,
continuamente
si conoscono e provano.
Il nome che offre la voce
non è che un frantume,
sostanza di aria e tatto:
svanisce quando la porta
si apre
e un saluto vivo d’occhi
esamina e riammette
quello che sempre
si compie al mattino.
Come spiegato poco sopra, la semantica dell’acqua informa e piega a sé il linguaggio e lo stile poetico. La sintassi è spesso franta, spezzata da ritmi narrativi che subiscono deviazioni o rallentano in digressioni. La versificazione stessa riflette il turbinio degli eventi e poi l’arsura dell’assenza, la faticosa ricerca di un nuovo equilibrio: abbondano i verbi e talora, laddove il dolore si acutizza, si ricorre a procedure di nominalizzazione; l’aggettivazione fluisce tra le memorie e spesso occorrono avverbi che alludono a una continuità temporale o sottolineano il logoramento di chi, istante dopo istante, si vede consumato dalla sofferenza fisica e mentale.