La lingua degli uccelli (XXVII)- Il Pavone, quando troppa bellezza può essere mezza bruttezza

Autore/a cura di:

(con poesie di Giovanni Pascoli, Franco Buffoni e Rosita Copioli)

Numerosi sono i modi di dire relativi a rappresentazioni, qualità e comportamenti umani che derivano dall’osservazione del mondo animale e, nello specifico, da quello degli uccelli: essere acuto come un’aquila o veloce come un falco, cantare come un usignolo, essere un pollo o essere un allocco; altre volte si sono generate locuzioni verbali come fare lo struzzo, fare la cornacchia ecc. o finanche verbi derivati come il più recente e selettivo gufare. Ma in questo antropomorfizzarsi – e di ciò potrebbe tautologicamente “pavoneggiarsi” – il Pavo cristatus, detiene una sorta di primato e di primazia, al punto che il verbo derivato è quasi l’unica occasione non zoologica di dire del Pavone[1].

Il Pavone è un uccello appartenente all’ordine dei Galliformi e alla famiglia dei Fasianidi e, come il Fagiano comune, è una specie alloctona, cioè di importazione. È diffuso allo stato selvatico nel subcontinente indiano, ma domestico in tutto il mondo, Italia compresa, dove esiste essenzialmente come specie di allevamento ad uso ornamentale. In passato e, a esempio, presso i Romani, une venivano invece apprezzate le carni e le uova, come accade ancora oggi per le sue parenti galline faraone (con le quali può persino essere ibridato). È, come i galli e i fagiani, un uccello prevalentemente terricolo, il quale conserva capacità di brevi voli che gli consentono accesso ai tetti di case basse o ai rami degli alberi, come quello di Primavera di Vincenzo Bodini: «L’albero delle lune è già fiorito, / quello / e dà al selciato un’ombra di pavone»[2].

La sua smaccata bellezza cromatica, la spettacolare “ruota” del maschio (uno dei casi di dimorfismo sessuale più evidenti), la sua eleganza, in definitiva tutto ciò che definisce, iconicamente, il Pavone, e il suo pavoneggiarsi, ha messo in ombra la ricchezza del simbolismo attribuito in passato all’uccello in diverse tradizioni e nell’araldica. In Occidente, oltre che alla bellezza delle sue penne, attribuzioni simboliche derivano, infatti, dalla sua muta annuale. Nella cristianità, ad esempio, per la sua capacità di rinnovare il piumaggio è stato eletto a simbolo di immortalità e resurrezione. L’erronea convinzione che la sua carne fosse incorruttibile dopo la morte, giunta fino a Sant’Agostino[3], lo ha reso simbolo dell’eternità dell’anima.
In araldica il Pavone è una figura maestosa, sebbene con un doppio significato: positivo, rappresentando – specie con la coda aperta – la sovranità, la bellezza regale, l’orgoglio nobile e l’immortalità; negativo quando allude all’eccessiva vanità e alla superbia, richiamando l’accezione negativa del verbo “pavoneggiarsi”. E prevalentemente negativo è il ritratto che ne fa Cecco d’Ascoli nell’Acerba[4]:

«Gode di sua bellezza nella ruota, | guardandosi a li piè prende tristezza | e allegreza da lui sta remota. | Voce maligna, capo di serpente, | le penne pare angelica bellezza | li passi del ladrone e frodolente. || L’omo che è pravo e simil di paone | che guasta la comune utilitade | per lo voler che cieca la ragione. […] E tu, che ‘ntorno tuo bellezza miri, | così la sciocca gloria te inbarda.»

Anche l’immagine del pavone di Guillaume Apollinaire pende, icasticamente, sul versante spregiativo e canzonatorio: «Quando ruota la coda, questo uccello | Il cui piumaggio si strascica al suolo, | Si presenta ancora più bello, | Però si scopre il culo.[5]»

Paragonato al capofila dei Galliformi, ovvero al Gallus gallus (domesticus)[6] il Pavone certamente stravince come eleganza, ma non può competere col Gallo in quanto a sonorità del verso: il suo pàupulo – così si chiama – è decisamente sgradevole, gracchiante e stridulo. In una sua poesia, poco nota (e, personalmente, non tra le più riuscite!), Giovanni Pascoli lo rappresenta come un vagito:

Il vagito del pavone
di Giovanni Pascoli[7]

Lontano vagisce il pavone
come un bambino di culla.
E passa la dolce stagione:
io non so nulla! Più nulla!

E cadono i fiori dal pesco.
Dimmi: che avviene di me?
E sibila il vento, e quando esco,
chiede la cincia: Che è?

Non sono arrivate le rondini
E s’è smarrito il cuculo.
Che è quella squilla? Rispondi!
Sono i sonagli di un mulo.

È uno che porta il carbone.
Mescimi! Accendi il camino!
Lontano vagisce il pavone
come un abbandonatino…

E, diverso tempo dopo, irrompendo nella poesia italiana moderna e contemporanea, pure critica è la voce di Franco Buffoni, nella sua ultima raccolta, La coda del pavone inserita nell’opera omnia mondadoriana. La coda del pavone è «ammirevole ma inutile, oramai inutile. La bellezza non salverà un bel niente visto che è del tutto superflua»[8].

La coda del pavone
di Franco Buffoni[9]

La coda del pavone e la sua ruota
Sono solo di intralcio all’animale
Nelle fughe dai predatori
E costringendolo a un dispendio di energie
Per produrre quel profluvio di colori
Ne triplicano il fabbisogno proteico.
Per lanciarsi in quella esibizione rockettara
A zampe ungulate e riprodursi al meglio,
Diventato femmina il raggio di luna
Trasmuta greve in Måneskin.

Toni e postura poetica più classica, quella di Rosita Copioli che, ricordandoci la nobiltà perduta dell’uccello sacro ad Era-Giunone[10], ne canta la sua decadenza, in parallelo a quella dell’Occidente contemporaneo. Il pavone nell’aia, declassata presenza tra «polli e cani alla catena», espone la sua fulgente e naturale bellezza alla mediocrità di chi più non ammira e rispetta la bellezza (e men che meno le altre creature viventi…) «Un pavone in un’aia, tra galline, ora nel tempo del degrado, della corrosione del sacro» – chiosa Roberto Mussapi – erede poetico del «cigno di Baudelaire […]: un cigno esiliato dai laghi trasparenti e dai cieli, fuggito da un serraglio di Parigi, caracollante nella strada polverosa della città sconnessa e caotica. Un esule. Questo pavone discende da lui, il poeta Copioli riesce a farlo brillare nella luce del suo piumaggio nello starnazzare di un’aia»[11].

Pavone nell’aia
di Rosita Copioli[12]

I pavoni non abitano più
i giardini di Asia e di Roma.
Ne ho trovato uno nell’aia di campagna
tra i polli e i cani alla catena.
Nel fango, a beccare come tutti
la miseria.
Ma lui, confinato, ristretto,
sventaglia la ruota regale di Era.
Non si sa come possa muoversi
in quello spazio azzerato.
Come un ballo su una mattonella, o meglio
un piedistallo.
Ora si presenta di fronte
con il collo azzurro mare alto
e il verde rame della coda immensa.
Ora si volta, diversissimo,
con il piumato ricco del corpo gonfio
sotto la ruota di filigrana.
È un tuffo al cuore, il sole che batte
sull’iride vasta densa
ma più ancora la musica che viene
dal suo segreto, che passa a noi silente
in quel voltarsi
ritmo stupore
tempo e senza tempo.
Perenne sospeso tra i chioccianti.


[1] Il Pavo cristatus è noto come Pavone reale o Pavone blu o Pavone indiano, ma è in sostanza il Pavone comune, che potremo semplicemente chiamare Pavone.

[2] Vittorio Bodini, Tutte le poesie, a c. di O. Macrì, Besamuci, p. 231

[3] Agostino, La città di Dio, XXI, 4: «a Cartagine ci fu presentato questo volatile arrosto […] Dopo tanti giorni, quanti sarebbero bastati a fare marcire qualunque carne arrosto […] e così dopo un anno, […] la trovammo soltanto un po’ più rinsecchita e ridotta. Da Volario, di A Cattabiani, Mondadori, 2022, p. 251.

[4] Cecco d’Ascoli, Acerba, XXI.

[5] Guillaume Apollinaire, Le Paon in Le Bestiaire ou Cortège d’Orphée (1911), in Le più belle poesie, a cura di Giorgio Luzzi, Crocetti Editore 1994.

[6] Il Gallus gallus, il Gallo rosso della giungla è l’antenato diretto del gallo domestico (Gallus gallus domesticus) ed è ancora presente allo stato selvatico in India e nel Sud-Est asiatico, a rischio di estinzione genetica per diffuse ibridazioni ai fini di domesticazione.

[7] La poesia compare in Lettere del Pascoli ad Alfredo Caselli (1898-1910), a c. di F. Del Beccaro, Mondadori, 1968, p. 743. Si tratta di una cartolina illustrata timbrata a Castelvecchio di Barga, 9 Aprile 1906, su cui è vergata, estemporaneamente, come pare, la poesia. Essa fu pubblicata da Vittorio Cian in appendice ai Ricordi aneddotici e lettere inedite di Giovanni Pascoli, come avverte in nota il curatore delle Lettere ad Alfredo Caselli, F. Del Beccaro. Tali circostanze sono citate in. M. Tropea, “Il vagito del pavone. Lettura di una poesia poco nota di Giovanni Pascoli” in Giovanni Pascoli a un secolo dalla sua scomparsa, a c. di R. Aymone, Sinestesia, 2013, p. 455.

[8] Gandolfo Cascio, La coda del pavone, Nuovi Argomenti, 24 giugno 2025.

[9] Franco Buffoni, da La coda del pavone in Poesie 1975-2025, Mondadori, 2025, p. 784.

[10] Secondo il mito, la dea collocò i cento occhi del suo fedele guardiano, il gigante Argo Panoptes, ucciso da Ermes su ordine di Zeus, sulle penne della coda del pavone, in onore del suo servizio.

[11] Roberto Mussapi, “Dal cigno al pavone”, in “Succede oggi”, 17 settembre 2016.

[12] Rosita Copioli, Le acque della mente, Mondadori, 2016.