actinorrize (XI): Marco Vitale

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Ciao Marco, ci si incontra sulla pagina dopo una estate (tua) in costante movimento tra presentazioni, reading e momenti di riposo in luoghi incantevoli e incantati, sospesi nel tempo. Leggere ho sempre pensato che nel tuo caso, conoscendo un po’ meglio da due anni a questa parte come scrivi, sia prima di tutto esperienza dell’altro, del suo tempo, del suo mondo, e dialogo con la tua vita vissuta.
A quali letture ti stai dedicando in questo periodo?

Ciao Cri, grazie per questa tua bella domanda. Sai, con il passare degli anni divento sempre più, e devo dire con soddisfazione, un lettore capriccioso; mi guida nelle scelte di lettura quello che immagino sarà il barthesiano plaisir du texte e dunque il desiderio di incontro e di dialogo, come giustamente ipotizzi. Ho così sempre a portata di mano, nel caos indescrivibile della mia libreria, i poeti che amo, alcuni saggi a cui faccio spesso ritorno (Minima moralia, Angelus novus, Lezioni americane, i Saggi critici di Giacomo Debenedetti…) e soprattutto il grande, anzi il grandissimo Carlo Emilio Gadda. Penso che lo leggerò finché gli occhi mi funzioneranno, appeso a quei suoi periodi che ti lasciano senza respiro in cui forsennatamente magicamente traghetta e mescola registri linguistici, alto e basso, ossessioni sarcasmi malinconie. È immenso. Non riesco a stare troppo tempo senza aprire un suo libro. In questo periodo sto invece leggendo e in parte rileggendo i racconti di Cechov, tutt’altra scrittura, piana, serrata, che si dispiega per “onde”, come diceva Nabokov. È un autore che mi ha sempre commosso, anche a teatro, profondamente: ti fa entrare senza che quasi tu te ne accorga nel suo universo poetico o meglio ancora nella sua scena. Così, dopo aver chiuso il libro, ti prende una strana nostalgia per la signora con il cagnolino; pensi di averla conosciuta tu sul lungomare di Jalta e fai strambi progetti per rincontrarla… Naturalmente leggo Cechov in traduzione e a questo proposito voglio raccontarti una cosa curiosa. Sai che Tommaso Landolfi, grande traduttore – anche dal russo – recensì negli anni cinquanta un’importante edizione cechoviana di racconti e, fatte alcune riserve, ne lodò le traduzioni con queste parole: “sono tra le poche consapevoli che non costringano il lettore, prima a familiarizzarsi colla singola lingua del traduttore e poi ad ingegnarsi, se può, di ristabilire mentalmente il contesto originale, tanto per capir qualcosa.” Ora se tu provi a leggere nella versione di Landolfi Kastanka – incantevole racconto di una cagnetta che si perde per le vie di una grande città – ti assicuro che “ristabilire mentalmente il contesto originale” ti costerà una fatica improba. Questo per dirti che il preziosissimo, e se mi posso permettere anche un po’ lezioso italiano di Landolfi, è quanto di più lontano dal delicato climax cechoviano, mentre funziona invece bene nelle traduzioni di Gogol. Mi chiedo ancora come abbia fatto a non accorgersene… A meno che…


Nella tua vita di lettore e di scrittore hai all’attivo tantissimi “lavori d’autore”, cioè tante collaborazioni con artisti incisori, ma anche pittori e scultori coi quali hai intessuto dialoghi poetici e nuovi percorsi. Solitamente sono volumi che non si trovano in libreria, numerati e donati a chi si reputa possa godere di opere di questo tipo. Quanto dedicarsi a percorsi di questo genere influisce sul tuo immaginario e sull’approccio alla lettura? E infine, quando entri in libreria cosa ti affascina e chiama dei libri? Quale il criterio per procedere a un acquisto?

Devo dirti Cri – ti parlo naturalmente della mia personale esperienza – che quasi sempre la scrittura di poesia nasce in modo autonomo, se pure “l’innesco” può essere bene, come talvolta mi accade, un quadro, un bassorilievo o un paesaggio. Autonomo è anche l’intervento dell’artista quando i miei versi si accomodano in una delle edizioni che dici; non è mai illustrativo. Mi è capitato però lo scorso anno di intervenire ex post, in base alle suggestioni di quattro belle incisioni dello scultore modenese, ma di origini istriane, Graziano Pompili tirate da un eccellente stampatore editore, pure modenese, Roberto Gatti. Accanto alle immagini di Pompili, figurazioni sfuggenti e raggelate, ho provato a intessere, pure in autonomia di percorso, una piccola storia in versi. Sì, sono volumi che non arrivano in libreria ma prendono per i canali del collezionismo elitario e questo non è senza gettare un’ombra di rammarico. Vero è però che vengono anche acquistati da – o donati a – importanti istituzioni museali e bibliotecarie quali il Gabinetto delle stampe della Galleria degli Uffizi, l’Istituto Centrale per la Grafica a Roma, la Biblioteca Poletti di Modena… Che tali istituzioni conservino e rendano democraticamente fruibili questi manufatti costituisce lo scrupolo fattivo e il desiderio di Giulia Napoleone, l’artista con cui da più tempo ho il privilegio di collaborare.
Quanto alle librerie – rispondo all’ultimo “corno” della domanda – non so bene dirti cosa mi guidi ogni volta nell’acquisto. Direi senz’altro non le recensioni, salvo pochissimi casi. Anche qui il capriccio è forse il criterio prevalente. Sono un frequentatore delle Feltrinelli, da molti spregiativamente definite librodromi. A me i librodromi piacciono, ci puoi passare tanto tempo senza essere disturbato a sfogliare quello che vuoi; non rimpiango le librerie di una volta dove eri perennemente scrutato e quasi ti dovevi giustificare di essere lì. Poi, certo, nei librodromi trovi molti libroidi, come li chiama Gian Arturo Ferrari, ma non ci si può fare niente. Piuttosto, siamo sicuri che certe nobili collane non si siano messe a sfornare libroidi?


La tua è una scrittura, ne è esempio eclatante la tua ultima raccolta, è una mappa di incontri. Persone ma spesso anche a opere di rilettura e di riscoperta di testi o figure del passato letterario. Hai una fervente produzione di saggi anche relativi a testi che riconosci come riferimenti nel tuo percorso. Immagino tu vada a rileggere volumi che hai incrociato nel tempo: quali sono quelli a cui torni più spesso? E perché proprio quelli?

Non riesco, parlo sempre di me e non in generale – non riesco, dicevo, a pensare a una poesia che non sia dialogica, che non contempli un tu in un contesto di esperienza. E il tu quando scrivo non è mai fittizio, anche se non individua una persona “reale”, ma un autore comunque a me presente, se pure assai lontano nel tempo, con le sue urgenze e le sue domande. Sempre più ho l’impressione che il mio lavoro si orienti in un confronto con la tradizione letteraria, con gli autori amati, ma anche con i compagni di strada che con quella tradizione a vario titolo fanno corpo. Nel mio ultimo libro c’è una sezione intitolata “Poeti”, dove accanto ad amici di luminosa scrittura come Alberto Toni, Roberto Deidier, Maria Clelia Cardona, Giancarlo Pontiggia trovi Attilio Bertolucci, in citazione dell’incipit di Viaggio d’inverno, e addirittura Carlo Goldoni fra i comici della famosa barca che va da Rimini a Chioggia, allora che la sua precocissima vocazione poetica viene gioiosamente alla luce. È un passo dei Mémoires letto non so più quante volte e ogni volta mi commuove regalandomi un senso indicibile di felicità.
Sì, rileggo… Si dice che a una certa età (sic) più che leggere si rilegge. Naturalmente questo è vero solo in parte e tuttavia è vero anche – non so più chi lo abbia detto – che un libro che non merita di essere riletto non merita neanche una prima lettura. Saba e Caproni li ho sempre vicini, e così Penna Bertolucci Sereni Erba: sono linee di confine, termini di paragone ineludibili… E Belli, passione inesauribile, che mi recito spesso ad alta voce, talvolta a memoria. L’altro giorno ero a Roma, passeggiavo vicino alla sciagurata via dei Fori Imperiali e mi è tornato in mente quel magnifico sonetto del papa agli scavi archeologici con il suo incipit indimenticabile: – “Bbene!” disceva er Papa in quer mascello / De li du’ scavi de Campo-vaccino / “Ber buscio! bbella fossa! bber grottino! / Bbelli sti serci! tutto quanto bbello! // …” Mi sono messo a ridere da solo, che poi il povero Gregorio XVI era pure di Belluno e non avrà certo parlato il favoloso romanesco che il poeta gli mette in bocca.
Non rileggo invece Montale, che ho molto amato, da anni, e non riesco a capire perché. Ti potrei fare ad ogni modo tanti altri nomi di autori e di libri – da un paio di mesi come sai sono in pensione e la mia bulimia si manifesta in modo vivace – ma mi limiterò a citarti una sola rilettura, quella dell’Aminta, la favola pastorale del giovane Torquato Tasso. La ebbi, immeritevole beneficiario, durante l’ultimo anno di liceo, a Roma, dalla mia professoressa di italiano e ricordo che la lessi – era il deprecato ’77 – in mezzo a uno sciame di indiani metropolitani, giocatori di frisbee, fumatori compiaciuti e “belli favellatori” … Devo dire che l’incanto di quei versi lievi come la seta si è ripresentato incredibilmente talquale, come non fossero passati quasi cinquant’anni da allora. Come avessi appena levato lo sguardo dalle pagine di quella deliziosa edizione della Bur che mi era stata offerta, mentre l’inconfondibile odore di uno spinello, sotto i bei pini di Villa Pamphili, mi arrivava alle narici e si era fatta l’ora di rincasare.