“Nel tribunale dei versi”, ovvero quando Lo spirito cuoce, di Francesco Vitale (Edizioni Efesto 2023). Nota di lettura a cura di Biagio Accardo
C’è in questo libro di Francesco Vitale un’intenzione poetica autentica che in varie parti e momenti mi ha fatto venire in mente il duello che il Rebora ingaggiò con la parola (Verrà, se resisto/A sbocciare non visto,/Verrà d’improvviso,/Quando meno l’avverto…) assumendola come il luogo privilegiato nel quale ammettere la possibilità di una schiusura del divino. E come il giovane poeta milanese scriveva nei suoi Frammenti: “… qui fra nebbie andiamo…”[1], così anche il nostro, proprio a inizio libro scrive: “Nel buio del reale…”. In entrambi questi percorsi poetici vibra l’anelito insopprimibile alla “luce”, ovvero a quella verità che, lacerando, anche per un solo istante “l’acre fluir dei minuti[2]”, apre il cuore a una dimensione altra, una dimensioneche soggiace, come occultata, nel fondo dei nostri accadimenti.
L’itinerario poetico che l’autore disegna in questo libro è di una precisione architettonica davvero pregevole. La parola vi svolge una funzione di continua veglia, di continua vigilanza sull’esistere, impegnata in un corpo a corpo con se stessa, che finisce per mettere tra parentesi il mondo; realtà che il poeta però saprà recuperare successivamente, in un orizzonte finale inaspettato, di nuove “nozze”col canto nascosto che pulsa sotto la scorza del mondo.
Uno iato (sulla cui natura non ci è permesso dire alcunché) separa le due parti che costituiscono quest’opera: se nella prima parte a prevalere è l’indagine introspettiva, l’autoanalisi, precisa sino all’inverosimile, nella seconda la poesia sfocia in una sorta di canto colmo di gratitudine e di lode per tutto ciò che ci accompagna nell’esperienza del vivere quotidiano.
Non si nasconde il poeta di avere a che fare con un segno, la parola, che pur ambendo a essere fedele alle cose e alle percezioni interiori, resta pur sempre un atto dubbio, uno svelamento che subito, secondo la lezione esistenzialista, si traduce in un nuovo velamento, rimanendo sostanzialmente una forma involontaria di “finzione”.
Eppure è al cospetto di questa parola, è al cospetto di questi versi che il poeta gioca la sua credibilità: “Mi batto per una causa/ nel tribunale dei miei versi/ e che avvenga veramente”, dice a pag. 20 del suo libro. E riprendendo l’anelito reboriano, a pag 21, continua: “Urge/camminare sulla superficie/minima/parola minima…” o più avanti: “una parola strana/ sorge invano/ da vene morte / e riascoltate/ vive/ nelle nostre pagine tatuate”.
Il cammino di questa prima parte del libro si muove su un percorso ben disegnato. Il poeta avverte che ciò che è in gioco nell’esperienza dell’esserci è molto più ampio e incidente della dimensione dialettica del pensare: a fronte dell’ ”occhio dell’inconscio” che “guarda” e “contempla”, niente ha forza di resistere; nelle povere “scatole grigie” (immagine desolata della nostra attività razionale), un “mare è sempre in tempesta/ un pugno vuoto / della nostra coscienza”.
La percezione della piccolezza umana, a fronte delle gigantesche forze in atto sul piano esistenziale, spinge il poeta a scelte radicali: “il tempo lacerato/ lasciamolo ai suoi passi…”, “è ora di andare”: lasciamo i fiori/ alle proprie vite”; non solo: la ciclicità di un tempo che tornando su stesso non comporta niente di nuovo ( “concluso / è il tempo delle buone novelle), spinge l’autore a prendere in esame il suo essere, il suo stare nel mondo. La presa d’atto è lacerante, si tratta del “mai essere stato presente”; del senso di colpa per aver “lasciato le orchidee alla vergogna” della propria assenza.
La disamina delle condizioni dell’esserci, realmente e poeticamente, continua severa e impietosa: tutto si è ridotto a “disegnare l’astratto, all’esame di quel “nero di seppia / estratto da anime umane”. Vivere e scrivere si riducono alla “registrazione di contorni”, conseguenza di un “continuum straniante fra insensibilità ed emozione”.
E allora la poesia censisce qualcosa che l’autosufficienza umana non prende in considerazione, ovvero la necessità di un “sarto giudizioso” che provi a cucire, in un insieme dotato di senso, le esperienze, svelando il senso degli accadimenti che permane generalmente nascosto. Si tratta di un sarto agente ed operante, “vivo in noi”, capace di lasciare il segno, anche se pronto ad eclissarsi subito dopo.
Cresce però, in questa prospettiva, la sensazione di essere un ostacolo al lavoro di questo sarto interiore, tanto che l’autore confessa: “Vorrei tramontare/ disfarmene/ del mio altro/ del di più/ appunto dell’altro”. E dunque all’autore non rimane altro che la vocazione alla quotidianità più minuta, cioè “l’etica delle cose minime”: “Di una poesia quotidiana c’è bisogno/ di domande nuove/ c’è bisogno/ ognuno di noi s’impegni/ ce n’è bisogno”.
Ma la conversione al tempo presente, la conversione all’oggi, non è solo un proponimento, ma un altro modo di essere nella realtà per il quale l’io non basta più a se stesso. Il poeta, finalmente libero dalla trappola dell’assoluto, sente “il movimento della terra/ invaderlo”, sente “venire a trovarlo/ nella parte più intrinseca/ di ciascuno di noi”. Letterariamente l’autore ricorre a Tellus, antica divinità romana della terra, per confessarci questa conversione dello sguardo che lo spinge finalmente a occuparsi delle cose di questo mondo.
Emerge così una nuova vocazione al canto, non più confinata alla dizione della scissione tra io e realtà, ma pronta a celebrare delle nuove “nozze”, avvertendo la letizia di “un coro dolce situato sotto il manto della natura”. Il poeta si chiede quando e se gli potrà essere accordata la facoltà di cantare quella “bellezza” nascosta; la fede nella poesia lo rassicura e lo spinge a credere che ciò potrà avvenire solo nel giorno in cui potrà e saprà farlo.
Ma intanto questa nuova attenzione al tempo che fugge via, lo porta a “ godere di attimi” e a “svuotare gli occhi/ e riempirli del quadro naturale”. Questi versi mi hanno ricordato quelli di Viviani nel suo Credere all’invisibile, quando dice: “Bere i paesaggi, quando tutti dicono/di confrontarsi col reale, bere/senza smettere i paesaggi …”[3].
Un nuovo “viaggio è iniziato”; la scissione tra io e mondo è davvero alle spalle se il poeta dice: “ho incontrato la festa immaginata/ ho visto il silenzio prendere parola/ e abbiamo danzato insieme/abbiamo pianto di nostalgia/lasciando le nostre lacrime/nascoste fra di noi”.
Ora che il “sipario si è aperto”, il poeta rammenta a se stesso (e a tutti noi) di quel “fiore piantato/ che avrà bisogno di acqua”. Si palesa la condizione tutta interiore per la nascita di una parola nuova anche se “sfuggente”, quella che “neanche l’amore riesce ad afferrare”; di un verso nuovo e “indelebile” che reciteranno/poi/ i nostri figli”. Lontano dall’ ”abbonamento con il rimpianto” il poeta vuole finalmente sentirsi libero da ogni colpa e dare voce a una emozione limpida.
Non essendo più chiesto alla poesia di fare casa nel mondo, di scavare fondamenta (semmai di dire appena del “soggiorno nella vita”), si fanno avanti parole nuove, colme di leggerezza, parole aree come fiato, fiato grande, respiro, musica, melodie, fuoco…
C’è, avverte il poeta, un indicibile, ovvero un’ “essenza” da vestire, con l’”abito più bello /che la vita possa cucire/. E il viaggio appena iniziato conduce fuori, a una Vita aperta, in una disposizione che non è accettazione del vuoto o celebrazione dell’assenza, ma orientamento verso un altro che finalmente inizia a fare capolino tra i versi. Il poeta scrive ora le sue parole perse e ritrovate, le sue parole confessate, dinanzi a una presenza e a “mani giunte”.
Il mondo non è più estraneo, non sta più davanti come un sfondo inerte, e le cose non sono soltanto oggetti, ma “sorelle”, e tutto sembra essere in attesa della visitazione dell’uomo: “le pietre attendono il passo d’uomo”. E’ di uno stare diverso che adesso il poeta ci racconta, che fa della lentezza un ritmo salvifico: “Ha l’odore della lentezza/ il mio silenzio/e del piano piano che calma”. Da questa lentezza e da questa attenzione nasce un anelito nuovo: “Voglio una vita nuova/ogni giorno, che sia gioia/per il mio essere al mondo/per lo stare ancorato/sulla terra/ed essere grato/sottilmente e lieto.
Non più rovello della mente, non più artificio, non più parola crocifissa al nulla, la poesia diviene ora una sorta di barca di memoria luziana che “ salpa dentro, che ribolle”, mentre l’io avverte sempre più la propria ontologica insufficienza e piccolezza: “Sto chiuso nello zero/ e ci sto tutto/nella chiusura di una cifra”.
L’elogio di questa nuova dimensione dell’essere, che si è liberato da ogni frenesia esistenziale, riposa in due versi davvero belli: “Cerco la calma dello stare/ su un ramo e non cadere”. E in questa nuova percezione del tempo, avvertito come Kairos, tempo di continua grazia, la vita è vista come esperienza di offerta, come un “incenso” chiamato a bruciare per lasciare il suo buon “odore”.
In quest’ultima parte del libro viene celebrato uno stare prossimo a un “fuoco centrale” e da questa prossimità il poeta trae una nuova linfa grazie alla quale “il corpo rinasce, amplificando la misericordia nella costruzione del verbo”.
Una data, quella del 24 febbraio, costituisce l’ultima sezione del libro, una data evento, che segna uno “stare quaresimale/che si apre alla luce/al tocco del cielo/che ci porti tutti a bere”. La ricerca individuale ora ha ceduto il passo a un noi che prende corpo nelle varie pagine; la poesia è divenuta un respiro che coinvolge l’umanità intera, è divenuta “carne venuta ad abitare in mezzo a noi”.
Lo spirito cuoce è un libro che mi ha appassionato; la sua versificazione tutta verticale, frammentata ma coesa, rappresenta un segnale preciso per il cammino della poesia: esiste uno spazio per un’ indagine che non collassi su di sé, che può aprirsi finalmente a un altro che sia veramente altro, e che non si risolva in una sterile quanto risaputa metamorfosi di dati interiori.
Quale che possa essere questa fonte, o questo altro, quello che qui importa è sapere che il senso della vita lo si trova nella misura in cui ci apriamo veramente al volto dell’altro, nella misura in cui accettiamo il rischio, come dice Vitale, della “vita aperta”.
Ho risentito in questo versi tutto l’anelito che spinse un giovane poeta, Mario Luzi, a scrivere la sua prima opera, La barca. In una di quelle magiche poesie, egli scriveva: ”Amici dalla barca si vede il mondo/e in lui una verità che procede/intrepida, un sospiro profondo/dalle foci alle sorgenti..”[4]
Ecco, la poesia conserva la chiara percezione che la realtà sia necessaria a innescare il canto, ma sente anche che questa realtà debba essere molto di più di quanto realmente possiamo esperire: tante sono le tessere mancanti per definirne l’insieme, per dare un volto a quell’Uno che percepiamo sempre disperso nelle pagine della nostra vita.
Biagio Accardo
[1] Clemente Rebora, Frammenti lirici – V, Edizione Garzanti, gli elefanti, pag. 22
[2] Clemente Rebora, Frammenti lirici – VIII, Edizione Garzanti, gli elefanti, pag. 28
[3] Credere all’invisibile, di Cesare Viviani, Einaudi Editore 2009, pag. 24
[4] Alla vita, di Mario Luzi, La barca. In L’opera poetica, Mondadori 2010
L’etica delle cose minime
Isolato dal resto
del resto
raddoppio ciò che rimane
e rimane ciò che raddoppio
accompagno i versi più cupi
le parole spente
spez zet tate
che fanno capolino
come sempre
saranno i pochi ad apprezzare
questa melodia
che pendola
fra l’esistenzialismo
e ciò che si pensa.
Immaginate dei cristalli lesionati
dove non si riesce a guardare
un’immagine per intera
iconoclasta
ecco
è così
ciò che rimane.
Di una poesia quotidiana
c’è bisogno
di domande nuove
c’è bisogno
ognuno di noi s’impegni
ce n’è bisogno.
L’etica delle cose minime
(anche se minime non sono)
va via
come le stagioni
ma ritorna
come le stagioni.
*
Cerco un vuoto
che mi contempli
e ricami spazi di conduzione
in rettilinea via.
Cerco nella fioritura
una preghiera
di un fare giorno
anche quando è sera.
E nel cinguettio degli uccelli
cerco la calma dello stare
su un ramo e non cadere.
*
Mi tengo stretto nel fare
mi allaccio al costante andamento
delle cose, dove tutto intero
resto in equilibrio
di melodia col mondo
col suo meraviglioso capovolgersi
in alba e tramonto:
e avere fame di luce
avere fame di gioia
avere fame d’amore.
*
Sto fermo nello stare
sincronico del tempo
mentre il mondo muove
geometrie di luce
innesti di gioia
e suoni primordiali.
Sono grato al grato
che ogni tanto passa.
Come al sole dopo il buio
come risarcimento.
Suona il telefono distorce i versi
le orbite le comete.
Dammi il prossimo respiro
e lo farò permanente.
*
E’ l’ora del pane
del tempo fermo
che si cuoce vivendo
dell’infinito mezzo
che c’è intorno a noi
e al nostro fare mondo.
C’è calma di sepolcri
di germogli di grano
in questo stare quaresimale
che si apre alla luce
al tocco del cielo
che ci porta tutti a bere.
*
C’è tempo d’attesa
tempo di grandine
e silenzio
nel respiro del mondo.
C’è mistero di pace
fiamma che arde
nel ventre universale
e ci tiene nel nome
nel peso singolare
che si fa corpo.
*
Batte il tempo
in levare dei miei versi
seguono congiunzioni
seguono direttive di misericordia
nell’antipasto primordiale
che ci fa uomini
ci fa crescente equilibrio
di trame e forme
dove la poesia si fa carne
e viene ad abitare in mezzo a noi.
