Nota e immagine a cura di Pietro Romano
La poesia come luogo di espressione dell’interiorità e della ferita primigenia. Questa, a una prima lettura, pare essere l’interpretazione che si può dare della raccolta di Emanuela Mannino, “Eppure” (Controluna, 2022). Eventi minuti e talora impercettibili, brevi illuminazioni e sequenze temporali non sempre definite si mescolano a una scrittura caratterizzata da una sintassi franta, marchiata come dalla lama di un coltello. Un affondo necessario per ricostruire l’indicibile dell’infanzia, da cui, come figura anfibia, al confine tra la memoria e l’ora presente, riemerge un “Tu” fantasmatico, sprovvisto della parola, perché figura dell’ombra, dell’assenza. Osserva a tal proposito Franca Alaimo:
La poesia di Emanuela Mannino tende ad agglutinare spazio e tempo attorno alla funzione conoscitiva dell’ascolto; ed infatti, nonostante i molti quadri naturali di grande sensibilità figurativa, tutta la sua scrittura ruota intorno alla necessità di muoversi lungo il crinale del suono, a partire da quello più segreto e profondo del silenzio. In esso la poetessa trova lo stillare delle parole assolute, simili a gocce che cadono sul foglio ad una ad una, lentissimamente, componendo perlopiù versi brevi, se non brevissimi (anche di una o due sillabe), come ubbidendo ad una volontà di risanamento, di innocenza o balbettamento infantile originario, capace di lasciarsi dietro il tritume quotidiano, se è vero che le parole che comunemente intessono le relazioni umane sanno essere non solo vacue ma anche urticanti (fino a toccarsi/ferirsi/mentirsi). Tanta attenzione al suono serve a dare ritmo allo stridore, al dissonante del mondo, a ordinare il disordine del fuori, così come quello interiore che preme con i suoi nodi irrisolti.
Di seguito alcuni testi estratti dall’opera:
I rami restano
incollati ai loro umori
di sangue e di terra.
A volte,
tremano pregano
nella cappella del vento.
E d’improvviso,
lo scricchiolio del silenzio.
Gli arti esausti,
vecchi di tempesta
cedono
a ciò che resta
*
Mi hai detto
ciclamino.
Eppure, l’ombra.
Hai baciato
le labbra col vento.
Dov’è finita
la poesia del vero
oltre i chiaroscuri
del magro tempo?
Tratteggia la distanza
bocca cucita d’orizzonte
assolo d’un addio.
*
Eccetto te, solo io. Il giorno
sta sulla grondaia
della primavera. Come rondine.
Se potesse il cielo
fare miracoli
saresti fiaba di mare aperto.
Ma la notte
ha un globo di sogni distanti
ed io sono velame
di stelle lontane
sul rilievo fisso
del mio esistere
*
M’adombro di me.
Avida la fame
che s’agita
con bocconi
di buio crudo.
Avida la luce
che sventra
l’ultima smorfia
di silenzio
*
Chiedo venia al dubbio
che tartassa gli argini delle fortezze.
Oggi sono in ferie dal futuro
autodafé di presenti deliranti.
Ho un briciolo di pane
ancora buono
per il davanzale
delle primavere vergini.
