Alessandro Assiri: abitare l’assenza

Autore/a cura di:

Foto a cura di Pietro Romano

Nota di lettura a cura di Pietro Romano

La parola poetica come rammendo per gli strappi e i vuoti della memoria. Nulla, più del canto, si voca alla ricostruzione di ciò che è andato ineludibilmente perduto: è il mai più, l’imminenza costante del vuoto e dell’oblio, del buio e della polvere, a rendere la parola come luogo provvisorio della permanenza e della durata. Ma è proprio la provvisorietà che tale operazione di scavo e memoria in sé implica a impedire una totale restituzione di senso alla perdita e all’oblio. La poesia di Alessandro Assiri, così esposta al declino, scaturisce dallo sforzo di mettere al riparo la memoria dal transitorio. È una poesia narrativa, che attinge a un repertorio di immagini e similitudini appartenenti alla sfera quotidiana. E tuttavia, gli oggetti evocati sembrano abitare una dimensione liminare, di confine, da cui promana una luce fioca, di desiderio e mancanza. Ecco, proprio questo stato di mancanza, privo di sconfinamenti e ritmo stesso della finitudine, è il fulcro attorno al quale orbita l’opera di Assiri, “Abitarmi stanca” (Puntoacapo, 2023), il cui titolo, dall’eco pavesiana, pone già da subito l’io lirico di fronte a un dissidio inestricabile, segnato da un certo male di vivere. È la coabitazione di elementi memoriali e di un’interiorità tessuta attorno alle trame dell’irreversibile a disanimare il tempo e ad accompagnare così le parole dell’autore. Osserva, a tal proposito, Fedeli:

Ciò vale nello specifico della presente raccolta Abitarmi stanca, il cui campo d’indagine ha come motore primo un tema caro ai poeti di più generazioni e mai espresso con la necessaria nitidezza, eccezion fatta forse per certi versi di Montale e, ultimamente, qualche scritto di Bellini: è l’assenza assoluta, sciolta da ogni legame, definitiva, ciò che determina il nucleo tematico di un libro diviso in tre capitoli complementari e complanari, in cui si respira l’atmosfera di una cappa nebbiosa, insistente e vaga che illude e toglie, che attutisce e scarnifica la realtà dove si manifesta.

L’assenza veste dunque tutte le atmosfere rievocate dal poeta. Anzi, il flusso narrativo attraverso il quale la narrazione ha luogo appare talvolta intriso di un’assenza indefinita e atemporale:

Una volta mi bastava poco, spostavo

quattro mobili e credevo di aver compiuto una

rivoluzione

Adesso che sono così esausto da spostare con fatica

anche una sola poltrona, lascio depositare la

polvere chiamo qualche granello per nome, ap-

poggio i piedi sull’unica valigia, immagino miracoli perfetti

Il tempo si misura in granelli di polvere che il poeta chiama per nome. Non è più sufficiente spostare i mobili per conferire alla propria casa un aspetto nuovo. L’assenza è tale che nulla muta e tutto di essa si permea:

E quanti pensieri già pensati, una prigione rigorosa

di passi corti e senza ritmo

L’essere stato che comunque mi divora

e io che non sorpasso, sto dietro finché dura

E tuttavia, nota Fedeli, “non è poeta d’assenza, Assiri. Egli tenta la rielaborazione di un lutto archetipico mediante la banalità apparente della quotidianità. Acquistano così veste simbolica oggetti d’uso, situazioni consuete: colluttori, trolley, teli da bagno, quasi la realtà si scomponesse in cellule senza metastasi per rendersi integra, totale. Lì dentro Assiri tenta di esorcizzare la morte, il tempo definitivo, pur sapendo che mai questo sarà possibile e tutto sarà uno scacco, una lotta titanica, inutile. È forse questa lancinante certezza a dare alla poesia di Alessandro una forza solo sua, quella del chiaroscuro, dell’impossibilità mai accettata, mai detta completamente”. Gli oggetti acquistano quindi la funzione di ricomporre una ferita archetipica e danno forma all’irreversibile, allo scacco che Assiri subisce ogni qualvolta tenti di richiamare a sé ciò che è andato inevitabilmente perduto:

Lo sai che c’è questo nulla

che m’insegue per divorarmi dentro extraurbano

dalla periferia al centro

E cos’è una vita avendo poco tempo: scendere

prima ma essere già stanco, salutare chi ti somiglia

con un gesto perché sono dove sei e ci vedremo

presto

L’altrove ipotizzato da Assiri ha una circolarità ridondante, che replica in sé le figure dell’assenza senza offrire riparo alcuno al soggetto che le evoca:  

E anche di schiena mi sembri di profilo la sedia

alla base del letto

la bocca secca per parlare

Forse è il pianto che non spurga questo residuo

cattivo, questa spia d’assoluta imperfezione

Lo stato di mancanza è anche tensione verso un “Tu” desiderato, i cui segni sono diffusi in tutto ciò che diventa oggetto di memoria:

Di me con te resta ciò che non è uomo

la tua sagoma nel letto è tutto ciò che disimparo

Lascia che ti senta in un nome qualsiasi

così come un’invenzione di vento che mi solleva

dalla fatica di questo chiedere di quanti giorni è

fatto il paradiso

Nessuna assoluzione per il soggetto desiderante, vittima del suo stesso desiderare:

Il calcolo disintegra la volontà misura la comples-

sità di ogni cosa

causa l’insorgere di ogni mio spavento

Conto, così divento vittima del mio fare analitico

Nessun numero mi assolve, nessun conto mi torna

È uno sguardo, quello di Assiri, capace di scorporare la realtà quotidiana nelle sue trame minute per evocarne memoria o un nome cui appellarsi:

Ogni parola è un pezzo d’abbandono, una biro

mangiucchiata col segno dei tuoi denti, un segnali-

bro rotto, un cuoricino disegnato, un noi in una

favola coniugata all’infinito da due tazze su una

mensola

da uno spazzolino in bagno, dall’ombrello che hai

scordato

Dovrei ripulire, toglierti dai fogli, dai bicchieri,

dalle canzoni, dall’ alito sul vetro dove scrivo il tuo

nome

Le cose in cui capirci, in cui ci siamo persi, il rac-

conto dal pavimento che mi dice tutto bene

e piano piano prende il posto del tuo vuoto

Una geografia del lutto, certo, ma anche dell’abbandonarsi a un tempo che scorre in ogni sua parte uguale a sé stesso:

Sono i miei piccoli suicidi controllati

le minuscole gelosie che mi sorprendono un mi-

nuto la debole didattica e quelle specie di sbagli

sparpagliati come mine inesplose, il trascorrere

di giornate oziose, strascicare i piedi i movimenti

base

E poi voglio smettere le schegge nocive di ogni

istante il breve tempo del tuo respiro quieto

E “abitarsi” allora diventa uno specchio nel quale si riflette sempre e solo la propria ferita, impossibilitata a sanarsi:

Il bene trovato in un posto dove non avevo pen-

sato è il rumore che la vita ha lasciato per me, il

soffio caldo che calma il tremore, è dire sono io il

male di cui soffro allo specchio che annuisce

E allora frugo continuo a cercare negli angoli re-

moti della casa, smuovo polvere e paure

gratto forte finché non torna il bianco