Il titolo della raccolta: La pratica del buio (peQuod, 2024, collana Portosepolto) centra pienamente la direzione ispirativa del poeta Giulio Mazzali, che, usando un registro lessicale rastremato ma sensibilissimo, rappresenta il tempo invaso dal buio (in un crescendo inesorabile dal crepuscolo fino al colmo della notte) come metafora di un tragitto esistenziale dominato da una tensione (verso quell’assolutezza affamante e delusiva allo stesso tempo) che pare rapprendersi e fermarsi sempre su una soglia: o temporale, o spaziale o psicologica: quella fra passato e presente, fra giorno e notte, fra sconforto e speranza, fra attesa e silenzio, i quali, a volte, richiamandosi, sovrapponendosi, trascorrendo l’uno nell’altro, costruiscono una sorta di testo infinito che suscita una ridda di emozioni complesse. Ne è testimonianza la presenza di una figura retorica infrequente nella poesia contemporanea che è l’allegoria; per fare un esempio, cito due versi da “Vivere in un’isola” (pag. 21), che così recitano: «Vivere su un’isola / prigionieri delle onde. // Lo sanno i marinai / prossimi alle vele», in cui il mare, figura del mistero, con i suoi capricciosi mutamenti, decide il quando e il come del viaggio, intanto che l’isola ci fa prigionieri di una solitudine senza consolazione.
È, insomma. l’enigma ad accerchiare il nostro io e a rendere difficile la navigazione quotidiana verso l’ineffabile. Quello che ci è dato conoscere è un perpetuo alternarsi, un’oscillazione dolente fra gli estremi, a volte anche un senso di perdita irreparabile: «Dove sono i canti/ le lievi piume d’ali?»; e perché a farci male è sempre la rosa perduta «nel buio della notte»?
Non è che non esistano la bellezza, la gioia dei fiori e la loro consolazione (come la ginestra di ispirazione leopardiana, nominata a pag. 32), la meraviglia dei sensi, ma sono sempre minacciate, come in Montale, dai cocci aguzzi di bottiglia (pag. 63) infissi sulla muraglia del nostro andare.
E tuttavia, poco a poco, nel diaframma fra la dimensione terrena e quella dell’assoluto si insinua il segreto epifanico dell’esistenza attraverso la considerazione e l’accettazione dell’incessante trasmutazione e rigenerazione del Vivente(«che l’albero ritorni alla sua terra, / alla gioia viva della prima semenza», pag. 83), così che ogni istante, nel suo irripetibile stupore, ci rende partecipi dell’eternità del Tutto.
Già dalla terza sezione le figure simboliche più frequenti sono, infatti, quelle della dell’alba, del disgelo della neve invernale, dei colori, del sole; esse preparano al canto disteso dell’“Epilogo”, in cui il rinnovamento spirituale lo conduce, insieme ad ogni uomo della contemporaneità verso «il cielo aperto», tracciando un «volo che abbandona la gabbia del suo tetto».
Inizia, finalmente, il viaggio di ritorno «al centro/ il respiro del mondo».
Il buio che chiude il primo testo della raccolta si è trasmutato nell’ultimo testo in «alba di Fenice», l’uccello che nella mitologia pagana come nella simbologia e iconografia cristiane rappresenta la resurrezione dal buio della morte e l’immortalità nell’eternità della luce.
La delusione è imminente,
come quando alla partenza
hai promesso a tutti noi
che avresti richiamato.
E l’attesa si è fatta tempo
vuoto, lenta pratica del buio.
*
Sento spezzarsi le vite
al bianco della neve,
perché i rami non sono
sempre uguali, la neve
pesa, rompe le cortecce.
Guardo il mondo allora,
pensando a un corrimano
al profumo di ginestra,
perché l’aria non disperi
perché tutto sia salvezza.
*
Foglie
Attendono quelle rimaste
la carezza che solo l’inverno
può dare. Sagge come radici
sanno del buio, del silenzio
che accoglie chi cade perché
tutto sia nuovo, vivo nel tempo.
Fotografia in copertina di Steve Johnson
