Stefano Dal Bianco: “Paradiso”

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Nel romanzo Flush, biografia del cane della poetessa Elisabeth Barrett Browning, Virginia Woolf ha inteso descrivere “la vita umile”, dal basso, in cui il cane riveste il ruolo di tramite tra uomo e natura. Non solo, attraverso le vicende del cane Flush, l’autrice ha veicolato un concetto a lei particolarmente caro, quello dell’emancipazione femminile, accostando la vita della donna e quella del cane, entrambi soggetti nei secoli a un rigido processo di educazione o addomesticamento, e quindi di repressione degli istinti e della libertà. In Paradiso, opera pubblicata da Garzanti e insignita dei principali premi di poesia italiani tra cui, recentemente, lo Strega Poesia, sono ravvisabili più filoni interpretativi, tra i quali, ad esempio, un concetto affine a quello espresso dalla Woolf in Flush. Composto durante il lockdown, dunque in un tempo di isolamento e dissuetudine sociale, durante le passeggiate con l’amato cane Tito, in paesaggi boschivi ancora intatti e protetti dall’urbanizzazione, l’autore torna in relazione interiore e fisica con la propria condizione di essere umano, sempre più privato della dimensione naturale e adattato per esistere come un prodotto culturale e sociale (“Fatto sta che lentezza profumo/contatto tenue della luna/tutto preme sul respiro di qualcuno/che una volta era cresciuto con l’erba/e solo adesso comincia lentamente a ricordare”). Per il tramite di Tito, medium tra uomo ed ecosistema, emerge nell’autore un’esigenza di spoliazione da costrutti e funzioni. Osservare Tito, essere pienamente nella sua specie, con i suoi pensieri connaturali, fa affiorare nel poeta un richiamo all’essenza istintuale dell’uomo, senza artifici o controllo (“sarà andato perso il contatto/sarà muto il silenzio dell’erba/e diverso il profumo delle siepi. […] Recuperare il contatto è affrancarsi dall’umano”). Dalla nuova coscienza si origina una volontà di affrancarsi dall’eccesso di condizionamento, non foss’altro nel rapporto dell’autore con sé stesso, attraverso la poesia.

Non a caso, probabilmente, le liriche che vanno a comporre Paradiso nascono dettate al registratore vocale del telefono, durante le passeggiate con Tito (“dettate a un cellulare /dagli dèi della natura silenziosa”). L’esigenza espressiva sembra non poter essere trattenuta e contenuta, né mediata dalla tecnica (“perché la bellezza, come tutti sanno/è una cosa che si guarda/ma non si può tenere dentro, perché sporca”). La necessità di condivisione e l’istinto paiono prevenire il lavoro concettuale, sebbene l’esito finale sia impeccabile a livello formale, e in ciò è evidente come Stefano Dal Bianco, metricista e studioso di critica stilistica, abbia interiorizzato un’estetica e una resa ritmica di rara esattezza, a fronte di una pressoché assente rielaborazione delle poesie, disposte anche in ordine cronologico di composizione.  Il ritmo dei testi è interno all’autore, sorgivo e, nel quadro dell’opera, potrebbe definirsi “visivo”, in quanto riproduce il movimento dell’incedere, una caduta del suono e la sua risalita nei passi. La musicalità è prodotta non solo tramite figure, per lo più anafore, assonanze, polisindeti e allitterazioni, ma anche da avverbi e locuzioni avverbiali il cui uso è cadenzante e sorprendentemente ritmale (“È così che beviamo gli aromi del cielo/come se non ci fosse un altro modo,/ come se mondi ulteriori e potenze/potessero istruirci/su quanto si rapprende, inavvertitamente/o scorre sulla pelle/o si intromette dissetandoci umilmente”). L’aggettivazione risulta tratteggiante, senza sbavature; l’uso ricorrente dei superlativi è espressione di meraviglia. La poesia di Stefano Dal Bianco è misuratissima, la tenuta del verso impeccabile, il linguaggio risulta contemporaneo in un versificare classico. Nonostante in un componimento dichiari: “L’incapacità/di stare nella lingua di tradurre”, l’autore si muove con assoluta padronanza tra lirismo e scrittura descrittiva, a tratti narrativa, la maestria del poeta sta nel non temere il dettato piano; il suo dire della natura e della vita è rispettoso dell’insondabile e, per questo, fedele.

La prima sezione di Paradiso, intitolata Appuntamento al buio, si compone di dodici poesie, ed è la più dolente, in cui aleggia con particolare intensità la percezione dell’inadeguatezza umana, del vivere incosciente (“Costituirsi al buio”), della fragilità e miseria quotidiane. La raccolta parte da una condizione di stasi non connaturale (“Un falco fermo contro un vento forte”; Un cavallo qui sotto si ferma”), che acuisce la necessità di una scelta, di un’azione. Nell’andare, nel cambiare panorama, si ravvisa una forma di salvezza: nell’uscire dalla propria costrizione interiore, nel mettersi in cammino, “sganciarsi verso altre possibilità”, abbandonarsi al fluire dell’esistenza, “liberati dal peso delle contingenze”, con una reazione impavida alla morte quotidiana e prematura (“quel giorno coraggioso della nostra vita/quando lasciammo tutto scivolare via”). La prima sezione prepara dunque alla seconda, infatti appare già molto presente il mondo vegetale e animale (falco, cane, gatto, cavallo, mosca, farfalla). Nell’ultima poesia è protagonista un acero che già allo sguardo del poeta non pare più fermo (Si muove./ Per come sembra a noi/mentre si muove ride,”), è un albero solo nel suo “paradiso”.

La seconda sezione, Paradiso, che dà il titolo alla raccolta, include pressoché l’intero corpus del libro, ed è ivi centrale il movimento, l’andare del poeta distaccandosi dalla propria condizione di partenza, sia di essere umano lontano dalla sua essenza naturale (“e cerchiamo un rifugio tra l’asfalto e il cielo.”), sia di persona confinata in una fase inerte della propria esistenza (“questa notte irrimediabilmente ferma”). Proseguendo nel tentativo di sondare le tracce plurali dell’opera, non appare secondario l’apporto dato dal titolo, il cui chiarore non collima con l’univocità. Da un lato, il titolo richiama lo stato mentale di pace che l’immersione nella natura suscita, si pensi all’accezione popolare di “paradiso” attribuita ai luoghi ameni, ai contesti naturali dove il paesaggio favorisce la contemplazione (“È molto facile da qui rendere grazie”). Non a caso, infatti, storicamente i monasteri e gli eremi sorgevano sulle alture o fuori dalle mura delle città, in campagna o comunque in luoghi appartati, per favorire il silenzio e il distacco dal contingente, la meditazione, il dialogo interiore o con Dio. Da un’altra prospettiva, comunque non aliena dalla prima, il titolo inevitabilmente evoca anche la Commedia di Dante (richiamata nel libro da una citazione tratta dal Canto V dell’Inferno) essendo, di fatto, l’opera un cammino interiore con una evidente dimensione verticale (“Confidare nel sentiero ha un significato/soltanto se/abitati dall’ombra/si mantiene un pensiero alla luce del sole”). L’autore compie il suo viaggio nel mistero di sé stesso e della vita con Tito come guida, viator tra la dimensione terrena e metafisica, anello di congiunzione tra stato di natura e sovrastrutture umane (“e Tito fa una certa invidia/perché il suo occhio è all’altezza dell’erba/e non è costretto a dominare niente/mentre il suo amico si fa serio/dall’alto della sua incostante umanità.”). Il cane Tito, innocente quanto cosciente di sé in rapporto al mondo, è una creatura in un eterno presente, e non per nulla in Paradiso troviamo un presente preponderante, un tempo assoluto che comprende nel qui e ora il passato e il futuro. Una condizione atarassica, un esistere a-temporale che appartiene al divino, e ugualmente all’uomo nella dimensione contemplativa, ma anche al mondo animale orientato al puro esistere quotidiano (“Quanto più mi allontano dal paese/più, se ricordo, il tempo si dilata/come seguendo la legge del bosco/che gradualmente si profuma/a mano a mano che l’oscuro prende piede,/ mi cattura, mi illude, mi promette/di tenermi per sempre con sé/nell’indistinto.).

Nella terza e ultima sezione della raccolta, intitolata Vento d’autunno, l’autunno è per l’autore la stagione del presente, e include una sola poesia, quasi che non vi sia altro da aggiungere, tutto il pensiero e il sentire si sono compiuti. Il percorso umano e poetico si è dipanato a cominciare dalla prima sezione, punto statico di partenza, attraverso la seconda che include tutto l’arco del movimento, interiore e fisico. L’attraversamento delle stagioni, riproposto anche cronologicamente in Paradiso, e delle nuove consapevolezze conduce l’autore a uno struggente dettato di commiato. La morte qui evocata non è una fine, ma “una chiamata” della foglia caduta che, “spinta dal vento” “voli verso l’alto”, in uno slancio verticale, nel continuo andare e tornare, nel ricominciare “in una vita di stagioni”, ove la luce, mai indifferente, riappare tra i nembi.

Può cogliersi un senso spirituale allertato in Paradiso, conflittuale soprattutto nella prima sezione, rivelatoria delle istanze che precedono una fase di dinamica esplorazione interiore (“il destino dei cristiani/esiliati dall’anima immortale”; “il coraggio di voler conoscere”; “tutto ciò che accade da che mondo/ è mondo accade all’ombra di un giardino/che nessuno di noi vorrà vedere mai”). La cacciata dal giardino dell’Eden nella prima sezione apre poi al ritorno, e il concetto è richiamato anche nella dedica del libro, il ritorno dei figli o del “figliol prodigo” che, con il suo carico di miseria, fa rientro alla casa del Padre, intesa come origine, e come un tornare in sé stessi. Nella seconda sezione del libro il discernimento è favorito dall’attraversamento di un paesaggio incorrotto, dall’immersione in una natura misteriosa che potrebbe dirsi espressione divina onnisciente e sovrana, rispetto all’umana “infame specie”.

Il legame tra poesia e biografia in Paradiso è intenzionale e franco, tuttavia, l’opera non è da intendersi come un monumento alla vita del poeta, né come una esperienza confessionale, il testo è legato alla persona che l’ha scritto <<in quanto “essere umano, “a-storico”>>, per citare il saggio che Stefano Dal Bianco ha scritto di accompagnamento all’opera omnia di Mario Benedetti. La riscoperta di significati personali nel libro non rimane al solo poeta, le epifanie del pensiero che la natura e il cane nella natura suscitano, emergono dalla necessità dell’uomo di collocarsi sul piano dell’esistenza, soprattutto nella maturità. Attraverso una lingua interiore che, nel caso di Stefano Dal Bianco, è nitida quanto misterica, quotidiana e sapienziale allo stesso tempo, frutto di un profondo disvelamento logico ed emotivo, gli esiti assumono il carattere della profezia, originata dalla contemplazione, un monito alla necessità di ritorno al proprio vero Sé.

Due poesie da Paradiso di Stefano Dal Bianco (Garzanti, prima edizione: febbraio 2024):

Sezione Paradiso:

Comincia così questo solstizio,
con un cane che gioca con un altro cane
e rimane, rimane a fissare
il piano sconfinato
e le macchie di giallo in lontananza
e il profilo dei monti
come se fosse un altro giorno, già trascorso
non più sollecitato
dalla brezza sul piano ma fermo
fermo nella stagione che si sporge.

Ritornerà pertanto, e riconoscerà
i segnali del vento, quello che non possiamo
non chiamare ricordo,
ricordo di qualcosa che un giorno
aveva mosso l’erba, come adesso,
aveva soffermato un cane in un pensiero.


*


Sotto le foglie secche cresce l’erba
e le solleva di quel tanto
che basta a farle star sospese,
loro nel loro inverno che diviene un limbo
lei che rinasce a ogni primavera
ultima prova del grande disegno
che tiene conto di tutto ciò che muore
e lo restituisce al vento, e a chi resta.

© 2024, Garzanti S.r.l., Milano.

Stefano Dal Bianco (Padova, 1961) è poeta, critico letterario e metricista italiano. Laureatosi a Padova, dove è stato allievo di Pier Vincenzo Mengaldo, attualmente vive in provincia di Siena ed è docente presso l’Università degli studi di Siena, dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne. Si è occupato prevalentemente di poesia e di critica stilistica, con studi sulla metrica e sul ritmo del verso italiano: Petrarca, Ariosto, Zanzotto e sulla poesia italiana del novecento. Ha fondato e diretto la rivista di poesia contemporanea Scarto minimo (con Mario Benedetti e Fernando Marchiori); è stato anche nella redazione della rivista Poesia dell’editore Crocetti. Di Andrea Zanzotto ha curato, con Gian Mario Villalta, il volume de I Meridiani Le poesie e prose scelte (Milano, Mondadori, 1999), approfondendone criticamente vari aspetti; nel 2011 ha curato l’edizione di Tutte le poesie di Andrea Zanzotto (Milano, Oscar Mondadori, 2011) e, assieme a Gian Mario Villalta e Antonio Riccardi, l’edizione di Tutte le poesie di Mario Benedetti (Garzanti, 2017). Tra le raccolte di poesia, Ritorno a Planaval (Mondadori 2001), Prove di libertà (Mondadori 2012) e Paradiso (Garzanti, 2024) con il quale si aggiudica numerosi premi, tra cui lo Strega Poesia, il Camaiore, il Pontedilegno, il Viareggio, il LericiPea, il Prestigiacomo.


* In copertina: Un dipinto di Giovanni Costa, Vista del Monte Amiata, olio su tela, 1880.