Rosanna Frattaruolo: “Fegato in cartolina”

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La realtà si configura spesso come un sentiero di dislocazioni: lo sguardo che si accinge a restituirla tramite le parole, può scoprire ora l’insufficienza a reggerne la visione ora invece la pluralità dei rovesci e dei possibili. La tensione desiderativa verso l’elevazione può venire meno oppure sgretolarsi di colpo di fronte all’incommensurabilità del male. Così “Fegato in cartolina” (il Convivio, 2024) di Rosanna Frattaruolo si dispiega al lettore, in uno stato di risonanza del male di vivere e della conseguente quanto faticosa spinta a decostruirlo e farlo risignificare in poesia. Il titolo annette a sé un’esperienza d’interiore ricostruzione del male, rielaborato per mezzo di sequenze filmiche e uno stile linguistico improntato a una sintassi franta e talora disarmoniosa. L’opera ripercorre il ritorno in una Puglia ancestrale, terra natale della poeta, scandendolo in tappe durante le quali ineludibile è il confronto con la ferocia dell’archetipo e delle sue declinazioni attraverso la vita e la morte: Puglia, Salento (Italy); Castello Estense e Canale Panfiglio; Litorale Vieste Mattinata; Baia di Citara; Il Campanile della Cattedrale; Lago di Viverone; Manfredonia; Innesti fotografici. Tratto distintivo fra una sezione e l’altra è l’inserirsi di una cartolina, in cui mittente e destinatario vengono a coincidere solo nella forma: infatti, agisce nell’io una scissione interna che lo costringe a difendersi o a subire le ferite e i contraccolpi orizzontali della realtà da un lato e dall’altro invece ad affidare il male subito all’insufficienza della lingua. Ne deriva quindi un esercizio di costrizione interiore che, per estrinsecarsi e non soccombere, necessita della parola scritta per trarre in salvo la vita dalle macerie. Non casualmente, la prima cartolina recita:

ti giungano i nostri saluti da Otranto

il mare è trasparente

lui anche ma non lo sa

e tu sei lontana solo fisicamente

Il verso finale della quartina rivela lo scisma interiore di cui sopra. Poi vi è un lui non identificato ma la cui trasparenza viene a significare, nel corso delle varie fasi del viaggio, la possibilità di una riconciliazione con il proprio Sé ferito e desiderante.

La sofferenza può essere feroce e amplificare i propri effetti sulla mente e sul corpo se a lungo compressa e non metabolizzata:

“ero in vacanza i primi 15 giorni di luglio,

ora è un rincorrere la realizzazione dei desideri altrui.

Siamo a Otranto da cinque ore e non vedo l’ora di andarmene.”

non è un presentimento

so quel che accade

la sofferenza mi chiude in gabbia

ho le chiavi da qualche parte ma non ricordo dove

via Nicola D’Otranto fine luglio

“se non la smetti ora, ti butto giù dal ponte”

Significativo appare il verso finale, “se non la smetti ora, ti butto giù dal ponte”, nel quale Frattaruolo, per rendere conto del suo dolore contrito, dà voce all’altra Sé che tenta di razionalizzare quanto invece fa soffrire. L’originalità di questa scrittura non risiede dunque solo nell’architettura che si è scelto di dare all’opera, ma anche e soprattutto nella volontà di trasporre la scissione dell’io nello stile, nella lingua e nella narrazione a volte drammatizzante.

D’altronde, come Levi stesso suggerisce ne La carne dell’orso, “ho letto da qualche parte che nella vita importa non già di essere forti, ma di sentirsi forti. Di essersi misurati almeno una volta, di essersi trovati almeno una volta nella condizione umana più antica, soli davanti alla pietra cieca e sorda, senza altri aiuti che le proprie mani, e la propria testa”. E in effetti, l’immagine della vita sola dinanzi alla pietra cieca e sorda riecheggia poi in uno dei componimenti successivi, in cui ha luogo un “naufragio” e l’io prende coscienza della propria rovina:

ii  

sono davanti al muro del pianto

spoglia da ogni finzione  

sono davanti alla sua verità  

pietra cruda e crudele  

me la ripete la cuccuascia da un po’ 

abbiano pietà di me  

la barchetta di carta  

a cui è stata sottratta l’acqua  

e la speranza di una lunga navigazione  

e la piantina di basilico  

a cui ho strappato ieri il domani 

e tre foglie per profumare  

il sugo al tonno 

La maschera cade, vacilla ogni forma di resistenza: l’io si libera in un pianto che però non è liberatorio e conferma che attorno è tutto soggetto a un lento naufragare e sfiorire. La “barchetta di carta” non porterà a termine il suo viaggio poiché l’acqua le è stata sottratta; la pianta di basilico non avrà domani giacché tre foglie le sono state strappate per garantire la sopravvivenza di qualcun altro le cui energie vitali vanno sempre più affievolendosi:

vii  

mia madre mi chiede se sono sua figlia 

le dico di sì ma nutro forti dubbi  

dissipatrice di verità certe 

Neanche la memoria è un possesso certo. Il componimento succitato pone in dialogo due figure, quella di una madre che poco per volta vede sfilacciarsi le trame della propria esistenza, e quella di una figlia che deve predisporsi alla perdita. Molti i punti di contatto tematici con Anedda, come poco dopo si può osservare:

11 agosto nei giorni a venire

cerco ogni volta di riportarla a noi – ma’

riconosce le piante

vorrebbe in balcone quelle coi fiori rossi

immagina i gerani ma non sa più chiamarli

ho ereditato il suo gesto del raccogliere

non l’intento di accumulare

ho sempre fiori in casa

riconosco la loro stagionalità

il tarassaco fiorisce anche a novembre

se lasciato radicato in terra

La condizione di Frattaruolo come figlia è quella di chi deve fronteggiare i vuoti di oblio della propria madre; ciononostante, la riconosce nei gesti che, malgrado le nebbie che le offuscano mente e sguardo, mantengono intatta un’eredità, quella della cura della vita che si consegna così da madre a figlia.

L’eros si frammista alle sequenze di una quotidianità che va ricucita poco per volta se la si vuole elaborare e comprendere:

 viii

sull’isola si rafforza il moto ondoso nel pomeriggio

mi eccita la spuma

e il frangersi fragoroso sulle architetture dei passi

il sole mi fa ancora strizzare gli occhi

del cuore è rimasto poco da strizzare

la mia bocca sarà la tua baia anche stasera

E tuttavia, la consapevolezza che la propria madre si accinge a entrare nel buio della vita, implica un rischio di identificazione di non poco conto:

parla con gli invisibili

lontano da casa

nessuno le dice che non deve farlo

un uomo vuole fare l’amore con lei

lei dice che ha Peppino e scalcia

l’oreille

je vais te dire un secret

ix

ho quasi terminato la lettura di L’Argatil

c’era una volta la follia

era nome comune di cosa femminile

sì femminile sempre e singolare

molto singolare

dal duemiladiciotto spira vento forte

le finestre sbattono continuamente

mia madre entra ed esce

dalla sua stanza sospesa nel tempo

dal duemiladiciotto temo di imbiancare

i pensieri oltre che i capelli

La figura materna si muove a metà tra la vita e la morte, le sue stanze sono sospese nel tempo e le finestre sbattono continuamente. Ma se quella della madre è una situazione che dal 2018 è divenuta atemporale, la scissione di Frattaruolo invece prosegue nel tempo e assume la forma di un logoramento graduale e costante. E infatti, con una serie di rimandi al componimento di cui sopra, dopo leggiamo:

xiii

perderò il controllo lo sento

amo padroneggiare le parole

e deciderne il flusso l’irruenza e l’imminente pausa

riemergerà l’immondizia che avevo interrato abusivamente

mi toglierò tutti i denti

mi taglierò la lingua

incomprensibili sibili

quando si apriranno e chiuderanno le porte

Padroneggiare le parole significa anche far riemergere quanto, durante il processo che porterà alla loro gestazione, è rimasto sepolto e compresso a dare forma alla sofferenza. L’esito finale di questo lungo parto è il divenire puro grido, di modo da essere il vento che faccia sbattere incessantemente le porte tra la vita e la morte.

Non c’è commiato cui la parola non si presti, e di questo Frattaruolo è consapevole laddove la morte le risulta impronunciabile:

xxi

imbattersi nelle planimetrie cimiteriali

hanno spostato gli uffici nella parte nuova

e non riesco a sorreggere l’architettura di parole

per chiedere dove sta mio zio

non so spiegarmi dentro

resto sempre analfabeta nelle questioni di morte

pronunciare un seppellimento mi riesce difficile

il tuo è un nodo in gola

era marzo, sì marzo

e lui era un uomo buono

Lo stomaco, fin dalla poesia di Persio, è sede degli umori:

xxvii

la domenica è il declino della routine settimanale

alle diciotto la timbratura è nella programmazione dei giorni a venire

mi caverei dal petto tutti gli organi del male

potrei cominciare dallo stomaco

Infine, anche il corpo non regge. Il corpo non regge dinanzi al contraccolpo orizzontale dell’esistenza e dunque manifesta segni di cedimento, la sua architettura crolla:

xxxiv

03 gennaio niente di buono

è arrivato anche al fegato

06 gennaio affiorano noduli polmonari

avere una serpe in seno

non è più una locuzione

nulla è stato di più drammaticamente reale

è sgusciato dall’uovo insinuandosi

tra le pieghe del nuovo anno

lo uccideremo col fuoco della poesia

La poesia convoglia la fatica a esistere e la rende traducibile, esperibile sotto forma di parola.







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