Commento a margine (XII) – Alessandro Barbato

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Da Piccola mappa per giorni comuni (PubMe, 2024)

Se fossi più paziente quando cerco
soltanto di sentire nelle pause
tra i respiri la piccola vertigine
di fiato che scompare in questo battito
che unisce i nostri vuoti, potrei forse
rinunciare a costruire, a dire, fare,
ai pochi e scalzi desideri, ai tarli,
al pane, alle preghiere e finalmente
avvicinare le mie dita a sponde
azzurre come i cieli; mentre si aprono
nel traffico di nuvole per dare
incerta luce bianca ai brulli, miseri
sentieri in cui nascondo le mie gioie,
incastonate alla tua voce spoglia.

Se fossi più paziente quando cerco

*

Tu sai della mia mente
quando appicca i bianchi incendi
tra le nuvole che paiono
i respiri dei miei poveri
falò di desideri e di paure
inattuali. Conosci del silenzio
il timbro e il tono della luce
che ci lacrima negli occhi,
se guardiamo al nostro cielo
ignari e liberi dai suoni
del futuro e del passato.
È niente, eppure è tutto
il poco azzurro che rimane
tra lo spazio e le cimase
dei palazzi che abitiamo.
È tutto, eppure è niente
se non posso confidarlo
più a nessuno che c’è stato
un tempo vergine di angosce
che danzavano nel vento.

Tu sai della mia mente

*

Ho ancora il tuo orologio stretto al polso:
sussurra giorni duri di mattine
schiuse al vuoto. Se batte la lancetta
dei secondi sopra gli anni tuoi
lasciati come mancia per le estati
che saranno, mi sforzo di incontrare
il tuo passare tra i miraggi
di stagione e a dare un cenno
ai desideri presi a morsi
dai tuoi occhi che si chiudono.
E peso è questa voglia di sospendere
i minuti, di trovarti senza
tempo nei riflessi e nei gorgheggi
della Terra. Un peso che mi tiene
qui ancorato alle parole
della voce tua che tace
e mi sorride da lontano.

Sala pesi (le estati che saranno)

*

Chissà dov’è che si aprono
i tuoi occhi ogni mattina,
dopo queste notti umide ed opache
come lacrime e di volontà
dettate a un cielo ingombro,
impolverato di astri e piccole
farfalle un po’ impacciate, forse
quasi spaventate dalla voce
balbettata della Luna
che le vuole più lontano.
Chissà se poi li incontri tutti i sogni
che non hanno avuto forza
per convincerti a restare,
ad aspettare ad occhi chiusi
che scompaia un altro giorno
di tremori, di singhiozzi
e voglie nude da non dire.

Con gli occhi chiusi

*

Fiorisce il bucaneve anche fra i ghiacci
delle nostre conclusioni, rivolto
il cuore verso il fondo della notte,
giù a terra, alla memoria di radici.
Così tu mi ricordi quel che è vivo
e sta nascosto tra le fredde mani
bianche dei giorni screpolati o i lenti
raggi del Sole di Gennaio. Vieni
a raccontare agli occhi che sapranno
anche ascoltare, di lontane estati
candide come è adesso anche la neve,
e spunti un po’ in anticipo o in ritardo
tra gelate che tagliano la pelle,
tremante in mezzo a un sorgere e a un cadere.

Bucaneve





Inoltrarsi, pianissimo e a mani nude, nel bianco sussurro delle piccole cose d’ogni giorno significa immettersi con estrema tenuità dove è principio e assenza la taciuta dimensione dei ritorni e dei sogni percorsi sulle ciglia della notte a un breve passo da quel che resta della lunare intenzione del vento tremante sulla soglia di un sentiero che a sé scopre il vuoto lasciato dal suono che fanno le lacrime quando nascono sulla sponda dei ricordi in mezzo a un sorgere e a un cadere di conchiglie come stelle tese all’estremità del tempo. Tempo che dilata e ricompone lo sguardo d’un tramonto oltre l’orizzonte della pioggia tentata nell’aritmica movenza dell’esistenza. Alessandro Barbato, senza temere la caduta, immerge il contenuto del suo respiro poetico sin dove ha profondità di immagine la materica insistenza della terra scavata all’interno di un solco profondo d’amore, l’amore per l’espressivo moto dell’attesa risorta in un cenno di oggettiva realtà purificata dal gorgo avvenuto tra i vicoli del cuore, affinché sia ancora chiarità quella prima carezza del mattino tentata a liberare le sue voci / tra ringhiere, sull’asfalto, / i capolinea, i marciapiedi allungati sotto casa, dove una stanza è un corpo non arreso all’usurato canone di un quotidiano stanco, dove sia ancora possibile accogliere di noi l’invisibile ferita; fiorita campana alla fine dell’inverno, come bucaneve sbocciato sotto il bosco che portiamo addosso, l’intesa di una forma che sappia ancora udire la bellezza di un nuovo firmamento.






Fotografia in copertina di Manuela Dimartino