Extra verso (II) – Marco Vitale

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1) Ciao Marco, intanto grazie di aver accettato questa intervista per Bottega Portosepolto, mi fa piacere che i lettori possano scoprire qualcosa in più del tuo lavoro di poeta. Hai pubblicato diverse raccolte di poesia, ti sei occupato di traduzione, di saggi e di critica sempre con grande competenza e riconoscimento da parte del mondo stesso della poesia e della letteratura, eppure Giancarlo Pontiggia ha detto di te” non conosco un poeta più schivo e puro e che vive la poesia con la stessa misurata intensità di Marco Vitale” ti riconosci in questa definizione?

Buongiorno Laura, sono io che ti ringrazio per avermi invitato a parlare con te del mio lavoro; è un’occasione felice e davvero gradita. La frase di Giancarlo che tu citi è come immagini un riconoscimento che mi onora e devo anche dire mi confonde, spero solo di essere riuscito a trasmettergli fino in fondo tutta la mia gratitudine: le cose più belle sulla mia poesia le ha scritte lui. Naturalmente non sta a me dire se sono un poeta puro – l’aggettivo ha l’estensione che ha – schivo probabilmente sì, forse anche per una certa pigrizia. Quanto all’intensità va naturalmente commisurata di volta in volta, come penso sia inevitabile, ma il problema vero credo che poi in fondo sia la misura, il nostro concreto operare sulla parola, la capacità di selezione e verifica, quello cioè su cui siamo chiamati a rispondere.

2) Gli Anni pubblicata da Aragno nel 2018, raccoglie oltre trent’anni della tua poesia, cosa è cambiato nel modo di sentire e di vivere la scrittura in questi anni? Il tuo sguardo ha perso o acquistato qualcosa nel suo modo di osservare la realtà con la lente della poesia?

È una domanda molto bella a cui replico, senza per questo volertene, con una certa difficoltà. Tirato giù dallo scaffale Gli Anni con le sue 390 forse troppe pagine e considerati à vol d’oiseau i suoi due estremi e cioè il libro di esordio – Monte Cavo 1993 – e gli inediti che inserii dopo Diversorium (2016) ti direi che il cammino di questi tre decenni di scrittura ha comportato una complicazione e una apertura di temi, con inserti quasi narrativi che inizialmente non avrei immaginato. Monte Cavo era il libro dell’assenza, del lutto, per dirla in termini più chiari, a cui opponevo una parola rastremata come unico luogo in cui mi sentivo di resistere. Sono poesie degli anni ottanta scritte tra Roma e Milano, dove mi sarei trasferito per lavoro e dove ancora vivo. Sentivo che quello che avevo lì detto aveva – almeno per me – la sua ragione, ma non poteva essere riproposto. Da allora mi sembra che l’apertura di registro sia stata il mio assillo nella scrittura, l’articolazione del qui e ora. Qualcosa si è perso, è possibile… Curioso, proprio ieri parlavo di questo con un caro amico, il poeta Domenico Adriano, che a proposito della mia raccolta di prossima pubblicazione mi ha detto, non senza la sua sottile ironia, “però sei sempre tu.” Insomma, non cambi mai, per dirla con Mina di una nota canzone che viene bene anche per il suo titolo: Parole parole.

3) Tu ami molto l’arte, spesso i tuoi versi l’hanno omaggiata, direi che il tuo modo di scrivere risente o forse si nutre anche di arte, nella tua carriera hai inoltre avuto delle collaborazioni con artisti noti penso, ad esempio, ai tuoi racconti usciti con incisioni del bravissimo Gianluigi Bellucci, l’arte e la poesia nel corso della storia si sono spesso unite in un connubio felice, anche in base alla tua esperienza, secondo te che cosa attrae i due linguaggi, quello visivo e quello della parola, in un dialogo reciproco?

Il rapporto con l’immagine, figurativa o astratta poco conta, ha significato moltissimo lungo tutto il mio percorso; un crocevia spesso presente nella scrittura, che mi ha portato a collaborare, devo dire con gioia, con diversi artisti. Hai fatto bene a ricordare Gianluigi Bellucci a cui mi legano da tempo amicizia e una grande stima e per la persona e per la straordinaria qualità del suo lavoro. Ma vorrei farti anche il nome di Giulia Napoleone, che è stata per me negli ultimi vent’anni un termine sempre vivo di riferimento. La bellezza e l’esattezza del suo segno, unito alla vaghezza che evoca – entriamo in un territorio leopardiano – rappresentano una fonte di emozione che si rinnova a ogni sua mostra e naturalmente ogni volta che con lei ho il privilegio di collaborare in edizioni di piccola tiratura ma di grande luce. Poi oltre all’emozione c’è la riflessione – vediamo se riesco a rispondere alla tua domanda – sul tragitto che segno e parola possono eventualmente compiere insieme, sul tempo di maturazione perché entrambi possono stabilire un comune tracciato, uno scavo, come quello del bulino o del punzone, che in mano a una grande artista come Giulia crea risonanze – la sinestesia è solo apparente – sempre inusitate. L’esattezza che richiede il lavoro dell’incisore su una lastra di rame non è così lontana dalla misura di un verso che – noi sappiamo – non può essere che quello, tanto è vero che a volte ci costa sforzi prolungati nel tempo. C’è poi un più largo discorso legato all’ekphrasis in poesia, dove più piani vengono a convergere: evocare un chiostro romanico coi suoi bassorilievi di santi e di profeti vuol dire, anche ma direi soprattutto in pochi versi, parlare di una civiltà remota, della dimensione del tempo, di cosa siamo stati e non siamo più, o magari anche di qualcosa che esiste solo per il nostro sguardo…

4) La tua poesia ha un’eleganza e un’armonia come poche in Italia, seppure non si sottragga dal raccontare il dolore, gli strappi, l’angoscia del vivere e i drammi che spesso accompagnano l’esistenza umana, il tuo dettato poetico non perde mai in limpidezza e al contempo in forza espressiva, qual è il tuo rapporto con la scrittura? Il tuo corpo a corpo con la parola?

Penso che in poesia tutto si possa dire purché lo si leghi ad una forma, che non è necessariamente quella chiusa della tradizione (il sonetto, la sestina…) Per forma intendo un accordo tra la propria interna voce e quanto risulta espresso, detto in altre parole tra embrione del pensiero e suono (più bello sarebbe dire musica…) Ma non in termini generali o peggio generici: il pensiero e il suono, così legati, devono essere quelli che solo tu, per piccola o grande che sia la tua “ispirazione”, puoi restituire nel loro connettersi. Si tratta di un “gioco” che non sempre riesce e il corpo a corpo con la parola proprio qui si situa. È il terreno che chiunque pratichi la scrittura con qualche serietà non può non conoscere e immagino che siano le stesse cose, Laura, che diresti tu a me.

5) Chi sono stati i tuoi maestri in poesia? Chi ti ha accompagnato in questi anni e chi c’è ancora?

Considero maestri in primo luogo i poeti che ho più amato e dunque letto negli anni della mia formazione. I grandi libri come Il seme del piangere di Caproni, Viaggio d’inverno di Bertolucci, il Canzoniere di Saba, Gli strumenti umani di Vittorio Sereni, e naturalmente Sandro Penna, Luciano Erba… La grande poesia italiana dei primi decenni seguiti all’ultima guerra… Ecco, parlavamo di forma un attimo fa… Credo che il senso della forma nella poesia moderna mi sia venuto da lì. Tante di quelle poesie le ho nella memoria e recitandomele anche ad alta voce mi sembrava di coglierne fino il fondo il ritmo, il suono, la giustezza delle parole… “Questo azzurro di luglio senza te / è attraversato da troppi neri rondoni / che hanno un colore di antenne / e il taglio, il guizzo della tua scrittura. / …” Mi sembrava, e ancora mi sembra, un miracolo… Tenere presente che esistono queste altezze non è un cattivo esercizio, non trovi?
Molto hanno contato per me i poeti francesi di Otto – Novecento, anche di diversa ispirazione: Verlaine, Laforgue, Jammes, Toulet, Apollinaire, Michaux, fino ad arrivare a Bonnefoy e soprattutto a Jaccottet. Più tardi la folgorazione per la grande poesia polacca del secondo Novecento, che leggo purtroppo nelle pur belle traduzioni di Pietro Marchesani. E per la grande poesia neogreca, e qui il debito è con Nicola Crocetti.
Poi certamente ci sono, come suggerisci, i poeti – anno più anno meno – della mia generazione. Di uno hai fatto opportunamente il nome a inizio della nostra conversazione. Giancarlo Pontiggia è un maestro anche nella straordinaria capacità di lettura della poesia, che possiamo apprezzare nei suoi bellissimi saggi. E ti vorrei citare almeno altri due amici poeti, sempre della mia generazione: uno è Roberto Deidier, pure ottimo saggista – come sai il maggiore studioso di Sandro Penna – l’altro, che purtroppo non c’è più, è Alberto Toni che tantissimo ha contato nel mio trovare una dimensione di scrittura, grazie a un confronto che è venuto meno solo quando lui è mancato nel 2019. Ma vorrei parlarti anche di Pasquale Di Palmo, conoscitore con pochi rivali delle avanguardie storiche francesi, con cui abbiamo un amore in comune: Venezia o quanto pensiamo debba assomigliarle.
Ho avuto una lunga e non sempre facile amicizia con Anna Cascella così come pure con Jolanda Insana. Autrici di una generazione precedente alla mia, diversissime fra loro, e neanche a dirlo da me, alle quali penso con nostalgia. Potermi confrontare con loro, con la loro idea di poesia, con quanto venivano scrivendo e discutendo, è stato un vero dono. Concludendo, ma non è una conclusione, ho piacere di citarti almeno gli ultimi, in ordine di tempo, bei libri di poesia letti: Pareri sul mondo oscuro di Baldo Meo, La linea delle ali, di Donata Berra e Voci per un’ingannevole pace, di Roberto Rossi Precerutti… la qualità di questi libri si può intuire fin dai titoli.

6) Tuoi versi meravigliosi recitano così:” Capivo che era tutta/ lì, quell’indicibile dolcezza/ quelle tinte quei rossi/ quegli azzurri e i gialli/ donati alla Caritas/E niente, niente che non avesse/ il peso di una neve/ benefica o una carezza/ tra il marciapiede e le stelle” (Canone semplice, Jaca Book 2007) ecco, questo testo mi fa pensare che la poesia sappia raccontare il peso della neve, un silenzio che schiude in dolore per ramificare poi nella memoria, qual è il tuo rapporto con il silenzio, umanamente e poeticamente?

Quella poesia è legata a un momento di tanti anni fa. Ricordo che ero tornato a Milano dopo le vacanze di Natale trascorse a casa di mio padre a Roma. Aveva nevicato e diversi senza tetto dormivano sotto il portico della stazione centrale con delle coperte coloratissime che sembravano appena uscite da un magazzino. Il quadro non si poteva dire fosse allegro, pure vi regnava come uno spirito di fraternità, qualcosa di lieve simile alla neve che era caduta. Non so se sono riuscito a esprimere il senso di quella scena con quei pochi versi che citi… Certo il silenzio era forse quanto la rendeva più “intima”, e dunque più percepibile. Così come in genere sta il silenzio dietro a un componimento poetico; da lì indubbiamente la poesia nasce, per poi restituire al silenzio la scena, che sulla pagina si colora di bianco. Però sul silenzio non vorrei insistere troppo. C’è gente che passa il tempo a parlare del silenzio. E così facendo…

7) Cosa consiglieresti ad un giovane che si affaccia alla poesia, che inizia a scrivere versi? E tu Marco, quando hai iniziato? Ricordi come sono nati i primi versi?

Consiglierei quello che qualsiasi scrittore responsabile consiglierebbe: leggere leggere e leggere. Naturalmente non solo poesia: i grandi romanzi, i saggi importanti di argomento storico letterario e, se possibile, anche scientifico. Di tutto questo un poeta deve nutrirsi; poi verrà quello che deve venire. Parafrasando un celebre pensiero di Leopardi aggiungerei “nessun maggior segno d’essere poco poeta, che voler poetica tutta la vita.”
Credo che un momento importante, sempre per un poeta che cerca la sua strada, sia la traduzione. Una traduzione della poesia ad uso personale, che consenta di fare i conti con un autore significativo che così più profondamente verrà letto e tanto più potrà essere di insegnamento. Nella resa da un’altra lingua, anche a semplice titolo di esercizio, si affina un artigianato letterario secondo me indispensabile, che torna utile quando uno meno se lo aspetta… Riuscire in una traduzione può significare semplicemente trovare una parola che intarsia alla perfezione, che proprio lì deve stare e non altrove. A volte la si cerca a lungo, nessuna sembra vada bene; a volte “arriva” di colpo, come per una capriola, un gioco di prestigio, un soffio d’aria…
Ho cominciato a scrivere molto presto, negli anni del liceo, anche se di tutte quelle prove lontane fortunatamente non ho più niente. Anche negli anni universitari quanto scrivevo risentiva di un clima che sostanzialmente non mi incantava. La neoavanguardia allora egemone aveva detto tutto quello che doveva dire e il nuovo ancora non si vedeva. La lettura di Ora serrata retinae di Valerio Magrelli fu per me una rivelazione. Ricordo che lessi quel libro appena uscito come in uno stato di rapimento, una poesia dopo l’altra, ammirato dalla chiarezza di dettato e insieme dalla profondità di sguardo e originalità. Quasi non mi sembrava vero. Fu come un semaforo verde… Mi diede il senso che qualcosa di nuovo era davvero iniziato e anch’io vi avrei potuto recitare una qualche parte.

8) Come sta la poesia in Italia? Quali sono i poeti contemporanei che per te, oggi, sono figure imprescindibili del nostro panorama letterario?


Mi è difficile rispondere a questa domanda. Non ho certamente un quadro esaustivo sotto gli occhi, ammesso che vi sia chi ce l’abbia. Tu conosci qualcuno che non scrive poesie? Ricordo che qualche anno fa portai a Stefano Agosti i libri postumi di Alessandro Ricci. Ne rimase incantato, tanto da scrivere su di lui un saggio di grande impegno, e mi chiese quasi incredulo: “Come mai non lo conoscevo?” Non ricordo cosa riuscii a rispondergli. Fatta questa premessa ti vorrei dire che mi capita di leggere giovani poeti di valore, che lavorano con serietà e hanno scritto libri che vale certamente la pena di leggere. Sono autori che anche tu hai presente; penso a Massimiliano Mandorlo, a Lorenzo Babini di cui proprio in questi giorni esce un bellissimo libro che ha avuto l’amabilità di farmi leggere in dattiloscritto. Altri nomi che ti faccio volentieri sono quelli del romano Giorgio Ghiotti, autore dotatissimo, di Ivonne Mussoni di cui ho letto, proprio grazie al prezioso suggerimento di Giorgio ma anche di Giancarlo, il bellissimo Sirene, di Francesca Santucci autrice di dense prose poetiche, di Davide Belgradi, poeta di costruzioni metriche dotte e complesse. E parlerei ancora di Marco Pelliccioli che ha appena pubblicato nello “Specchio” un libro di notevole articolazione e capacità prospettica, sicuro in questo momento di dimenticare qualche nome interessante… Ne vorrei concludere che le cose non vanno poi così male… Quanto agli autori imprescindibili, mi permetti di prescinderne?
Però, aspetta, penso che sarebbe bene non prescindere dalla poesia di Maria Clelia Cardona, sempre di altissimo livello, e dai suoi splendidi racconti.

9) Ringraziandoti di essere stato con noi e facendoti i migliori auguri per il tuo lavoro di scrittura, voglio però salutarti con uno sguardo rivolto al futuro: a cosa stai lavorando? Quali sono i tuoi progetti più immediati?

Ho un nuovo libro di poesia in bozze proprio in questi giorni; uscirà da Passigli dopo l’estate. Si intitola La strada di Morandi (Giorgio naturalmente, non Gianni…) La strada bianca di Grizzana, sull’Appennino bolognese, che venne inopinatamente asfaltata con grande dispiacere del Maestro, così privato della bella polvere che si depositava sui biancospini. Sto poi lavorando a un libro di imitazioni della poesia francese dal Quattro al Novecento. Ci tengo molto, anche per i motivi che ho provato a dirti poco fa. Alcune di queste imitazioni le anticipo ora ne La strada di Morandi, in una sezione intitolata “Quaderno francese”.

10) Oso: ci regali un inedito? (Sarebbe un dono prezioso e unico per noi e tutti i lettori di Bottega Portosepolto)

Ricordo che una volta Franco Loi mi disse: “Se una rivista ti chiede una poesia tu non dargli mai quella che hai appena scritto, perché è facile che poi te ne penti e una volta pubblicata ci trovi qualcosa che non va e non la puoi più correggere.” È un consiglio che ho sempre trovato d’oro e a cui mi sono attenuto con scrupolo per tutti questi anni, però questa volta voglio fare di testa mia e ti do con piacere l’ultima poesia scritta. Prima però consentimi di ringraziarti per la cordialità delle tue domande e per tutte le tue parole di stima.

Tra i tigli che disperdono
il loro nuovo incanto e rallegrano
i passi lungo viale Cirene e di anno
in anno in questo mese si ritrovano
ce n’è uno più timido che ancora
stenta e le sue foglie minuscole
fanno contrasto sulla prospettiva
Come ogni anno avrà più tempo
per venire in luce
e quanto gli urge è mistero
a chi non sa di botanica ma pensa
a quella strana ritrosia come a un qualcosa
che l’accomuna all’angelo
imperfetto, dei bei versi di Herbert



Marco Vitale (Napoli 1958) vive a Milano. Le sue poesie sono raccolte nel volume Gli anni (Nino Aragno Editore 2018) che comprende cinque libri precedentemente pubblicati (Monte Cavo 1993, L’invocazione del cammello 1998, Il sonno del maggiore 2003, Canone semplice 2007, Diversorium 2016). Di prossima uscita, presso l’editore Passigli, un nuovo libro di poesie dal titolo La strada di Morandi.
Traduttore letterario (Guilleragues, Aloysius Bertrand, Vigny, Camus, Hippolyte Taine, Laforgue) è autore di saggi e di racconti.

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