Giancarlo Sissa: La poesia è una inesausta presa di posizione relazionale

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Tamen (Moretti&Vitali editore, 2023) di Giancarlo Sissa è un’opera antologica costituita da un poemetto intitolato Noi” comparso prima in “Manuale d’insonnia” (Aragno editore, 2004) e successivamente in “Autoritratto” (Poesie 1990-2012), (ItalicPequod editore, 2015) e dalle seguenti opere:  

“Il bambino perfetto” (Pietro Manni Editore, 2008), con postfazione di Antonio Prete

“Persona minore” (qudulibri Editore, 2015)

“Archivio del padre”(MC Edizioni, 2020) con prefazione di Pasquale Di Palmo.

“Senza titolo alcuno” prima edizione in “Sospeso respiro-Poesia di pandemia” a cura di Gabrio Vitali (Moretti&Vitali editore, 2020) con prefazione di Gabrio Vitali e una riflessione antropologica di Mario Ceruti.

“Tamen” è un libro che non avrei mai voluto finire di leggere, terminarne la lettura ha significato, per me, lasciare un vissuto profondamente affine al mio. Come altri libri, anche questo di Sissa andrebbe letto più volte, non solo per assaporare la raffinatezza della scrittura, ma anche per ritrovare, in certi passaggi, quella calda familiarità che ci rende umani e desiderosi di condividere sentimenti ed esperienze. “Tamen” è un’opera in cui storie differenti si incontrano contaminandosi, in cui i ricordi dell’autore e il presente si guardano, ridefinendosi ogni volta. I ricordi che sono narrati non emergono puri, ma immersi nel rumore del mondo nel quale andavano formandosi. Come scrive Sissa: <<Ma non era mai il ricordo a staccarsi, bensì le parole del ricordo…>>
Attraverso una scrittura diretta e vibrante, capace di svelare tanto la quotidianità quanto i territori del sogno, Sissa costruisce un’opera che chiama il lettore, lo invita a far parte del mondo narrato e ci ricorda come le vite di tutti abbiano tratti comuni e attendano di entrare in relazione. Come afferma l’autore, che interverrà direttamente in questo testo rispondendo ad alcune domande, << “Tamen” è un “libro plurale”, un libro di libri, che è andato organizzandosi lungo gli anni come un diario generazionale – e dunque non solo autobiografico in senso stretto, ma anche storico, politico e sociale.>>


A.C: Se escludiamo il poemetto incipitario, tutti i testi riportati nell’antologia, salve rarissime eccezioni, sono prose poetiche. Come precisa Pasquale Di Palmo nella prefazione al volume, <<Qui la dimensione della prosa poetica gioca un ruolo decisivo, configurandosi alla stregua dell’unica via d’accesso alle sfaccettature di una realtà sempre più artefatta e articolata, sfuggente.>>

Come mai sei giunto a questa scrittura e l’hai adottata in molte tue opere?


G.S.: “Tamen”si apre con il poemetto in versi “Noi” apparso per la prima volta nel 2004 in “Manuale d’insonnia”. Nel poemetto in questione ho cercato di raccontare – in versi, in rima, con musicalità quasi cantautoriale (e per la mia scrittura in versi i grandi cantautori italiani, da Dalla a Guccini, da De Gregori a Fossati, da Ivan Graziani a Eugenio Finardi, Bennato, Claudio Lolli e via discorrendo sono stati importantissimi, poiché loro e non altri hanno accudito, promosso e valorizzato la funzione autenticamente comunicativa della poesia in Italia, in anni in cui imperversava una avanguardia laboratoriale sterilmente ideologica)  la mia e d’altri (amici, sodali, amate e amanti, compagni e compagne di strada, o “de la calle” come direbbero i poeti de la experiencia andalusi) adolescenza e giovinezza mantovane. Ciò detto, tuttavia (tamen), la scrittura in versi non mi è più bastata: la propensione al canto, alla musicalità della parola, alla scansione ritmata del verso rischiava, dopo “Laureola”, “Il mestiere dell’educatore” e “Manuale d’insonnia” (libro molto problematico e assai incompreso quest’ultimo nel quale la musica si articola anche secondo modalità jazzistiche, cara molto mi è la Rapsody in blue di George Gerschwin, che certo preludono alla prosa lirica futura) di diventare maniera, stile … mentre io credo che compito del poeta sia tentare e rischiare, ogni volta, un libro nuovo, diverso, che superi, per un motivo o per l’altro, il precedente. Nello sfacelo sociale ed esistenziale dei primi anni Duemila, la rabbia, la malinconia, il disdoro chiedevano di organizzarsi in racconto, in prosa lirica, di non essere più “consolate e protette” dalla bella musicalità del verso. “Il bambino perfetto” è il tentativo di tradurre in parole questa istanza, un modo altro di confrontarsi con la sconfitta.
“Persona minore” cerca conferma d’alcune intuizioni innamorate nel mondo. In “Archivio del padre” la penna diventa sismografo dei balbettii del dolore e della più profonda consapevolezza di sé. In “Sospeso respiro” la prosa è quella semplice comunicativa, esposta, che deriva addirittura da alcuni post comparsi su Facebook … anche la prosa lirica, dunque, gioca con le sue stesse molteplici possibilità e declinazioni.
A.C.: Le voci, o presenze, che si manifestano nei testi, come hai già accennato, sono quelle dei familiari -il padre in primo luogo- quelle delle persone amate, di amici, di compagni di strada, di operai. Degne di nota sono le presenze, sfuggenti ma incisive, di persone estranee e che, per qualche motivo, hanno intercettato il tuo sguardo segnandolo in maniera definitiva. “L’altro” non è una figura di comodo, non viene inserito per inscenare un dialogo; al contrario, ha un peso umano considerevole, esige una cura particolare e pare essere determinante per la direzione intrapresa dalla tua scrittura.
 

Il poemetto “Noi”, già precedentemente citato, e dedicato a un amico scomparso prematuramente, è pervaso da un senso di esclusione che sembra aver pesato molto negli anni della tua adolescenza e giovinezza, infatti a questo proposito scrivi: <<i criteri / mortali dell’esclusione>>. Accanto a una percezione di esclusione, però, si riscontra anche un forte sentimento, che potrei definire “spirito di gruppo”, e che riguarda in particolare gli amici del luogo di origine, ossia Mantova e la sua periferia.   

Che ruolo ha “L’altro” nel tuo modo di stare al mondo, e di conseguenza nella tua scrittura?  Quanto è determinante, per la tua esperienza di vita, sentirti parte di un gruppo?


G.S.: Come dicevo prima, “Tamen” è un libro plurale, non solo perché è un libro di libri ma soprattutto perché è fortemente caratterizzato dalla presenza dell’altro e degli altri, una sorta di “autobiografia plurale”. Come ho scritto in “Per Tamen, storia di un diario plurale” testo collocato alla fine del libro, <<la scrittura è anche un esercizio di accoglienza e di ospitalità>> (pag.169) e <<la poesia è una inesausta presa di posizione relazionale>> (pag. 170), con buona pace di chi crede che l’intelligenza artificiale potrà soppiantare la poesia vera. Gli altri, per me e in “Tamen”, hanno un volto, un nome, una storia, sono il Ginko, sono Stefano Strauss il Maestro, Licia, Nicoletta, Riccardo, e via discorrendo, non sono entità astratte, bensì amici e nemici, amori e disdori, pezzi di vita e di storia e di storie. Del resto, perché esista la poesia (l’arte, la vita!) occorre che esista almeno un altro, un’altra, senza questo non esiste ascolto, rapporto, relazione, possibilità di riconoscere la realtà, forse addirittura la verità.
 
Per quanto riguarda lo “spirito di gruppo”, io sono, per motivi professionali, anche un esperto delle dinamiche di gruppo (dal punto di vista sistemico e non solo). Chi svolge professioni legate alla relazione (io sono Educatore e Formatore nell’ambito sociale, da molti anni) e chi si occupa di scrittura e/o teatro non può non occuparsi di questo; osservare se stessi nella relazione con gli altri e gli altri in relazione fra loro , secondo me, è non solo un fattore ineludibile di crescita personale e sociale, ma anche un dato del mio essere e agire nel mondo, nel quotidiano … ma poi, scendendo dall’albero dello sguardo scientifico, sociale e antropologico, l’altro, il gruppo, lo spirito di gruppo sono anche un desiderio: la famiglia che solo in parte e così maldestramente ho avuto e non avuto, la comunità sempre più mortificata (e desertificata, algidamente allontanante) che le città più non sanno accudire, promuovere, ospitare.
Al momento io e Alessandra viviamo alla Croce di Casalecchio, un quartierino fra Bologna e Casalecchio di Reno – a sei o sette fermate d’autobus da Piazza Maggiore a Bologna e a due dalla Casa della Conoscenza, splendida biblioteca di Casalecchio. La particolarità della Croce di Casalecchio è che in tempi non lontani era un paesino, un borghetto, ora inurbato ma che conserva il suo spirito di paese e di gruppo … costeggia un parco e un fiume, ha i suoi negozietti e bottegucce, al Bar Giorgio vendono anche il pane e la mozzarella, nella piazzetta antistante la chiesa il giovedì mattina c’è il mercatino dove comperare le mele, le mutande, i calzini, il vino … che io sappia sono l’unico scrittore che ci abita, così come Alessandra è l’unica scenografa, attrice e autrice teatrale … la sorella del cartolaio, bellissima donna di forse cinquant’anni, sono dieci anni che non va in centro a Bologna – se si muove dalla Croce di Casalecchio è per andare in stazione (a Casalecchio) o in aeroporto … le piccole comunità, i gruppi di cittadinanza o di lavoro e di vita sono la vera porta verso il mondo …
 
Un’ultima precisazione: gli ambiti che da sempre frequento e nei quali agisco – la Poesia, il Teatro, il lavoro nel Sociale – per me interagiscono continuamente, sono distinti e distinguibili, certo, ma non  scissi o separati … sono altrettanti esempi di possibili comunità che incarnano la possibilità dello spirito di gruppo, dagli Apostoli all’amatissimo gioco del Rugby, dalla Compagnia di teatro ai clienti del negozietto di prodotti tipici pugliesi, l’umano che si riconosce nell’umano e se ne prende cura, anche criticamente, ma con onesta buona volontà.
A.C.: Dopo aver trattato argomenti di carattere generale, spostiamo adesso l’attenzione su una particolarità di quest’opera. 
L’occorrenza della parola “neve”all’interno del libro è molto elevata, inoltre tale parola compare in contesti apparentemente diversi. 

La neve ha una simbologia particolare? Oppure fa parte di quelle parole che misteriosamente scivolano nella scrittura?


G.S.: “La neve cade saggiamente” mi ha insegnato, un giorno che parlavamo di quanto sia bella la neve, uno dei ragazzini disabili con i quali lavoro da ormai più di trent’anni. Credo che non si possa dire meglio l’incanto della neve e del nevicare, in un certo senso la dimostrazione “scientifica” della magia (bianca). La neve, per chi come me – che grazie al cielo sono nato e vissuto in un tempo in cui la neve era ancora possibile! – l’ha vista scendere sulle città, sui giardini, in riva ai corsi d’acqua, fuori dalle finestre dell’aula scolastica, fuori dai vetri di un’osteria, illuminata appena dai lampioni notturni o nelle fradicie passeggiate dell’adolescenza, mano nella mano con un’amica, le guance santamente arrossate dal freddo e dalla “letizia”, o addirittura l’ha felicemente spalata durante incredibili turni di notte dai binari della ferrovia, resta una esperienza “sacra” nella quale lo stupore, la gioia del gioco, il silenzio raccolto e straordinario del pensiero meditante, così come il raccoglimento che ne deriva – a esempio la voglia di correre a casa a disegnare davanti a una tazza di tè caldo – acquisiscono il senso umano della felicità condivisa. Non sto facendo il poeta, credimi, è che non so dire meglio di così cosa sia per me la neve (fra l’altro: in copertina di “Tamen” ora si ha una fotografia che mio padre mi scattò in cortile a Mantova quando avevo forse otto anni, cioè ormai cinquantaquattro anni fa! Ma il progetto originario era di mettere una foto d’archivio – forse dei primi anni Settanta, ma di non so chi – che ritrae alcuni ragazzetti che giocano a palle di neve sul ponte del Rio, in pieno centro a Mantova, poi non si riuscì per motivi grafici e tipografici). Per rispondere in dettaglio alla tua domanda, la presenza della neve nella mia scrittura non intende avere significati simbolici precisi o predefiniti, e non credo assuma significati diversi a seconda del testo, la neve è semplicemente la neve, è ogni volta come il primo bacio. E cade saggiamente!


A.C: Concludo con una domanda sul titolo dell’opera. Tamen in latino significa” tuttavia”, ma come fa notare Pasquale Di Palmo nella bella prefazione al libro <<deprivato della consonante iniziale, assume l’accezione sacrale di “così sia”.>> 

Perché questo titolo?


G.S.: Tamen è parola che mi ha colpito da sempre per il suo valore di suono, per la sua qualità musicale ma, soprattutto, per il suo valore polisemico: come scherzosamente cerco di illustrare in una minuscola poesiola posta in nota a pagina 162 del libro, Tamen significa Tuttavia, ma è anche la T maiuscola del Tao francescano e del Tao orientale, segni ineluttabilmente universali, ma è anche “Amen”, il “Così sia”così vicino al suono primo, all’OM delle tradizioni orientali, al suono fossile del cosmo, al Verbo del Vangelo, insomma una parola ricchissima di significati e di cammini. Tutta Via.
 
Voglio ringraziare Giancarlo Sissa perché ha fornito risposte preziose dal punto di vista letterario, ma soprattutto per la generosità e la freschezza con cui si è accostato a questa intervista, donandoci importanti spunti di riflessione e parlando direttamente della sua esperienza di vita. 

Testi tratti dal libro 

Da “Il bambino perfetto” (2008)

II

[…] Dormire era possibile solo nell’emergenza, nella neve, in trincea, sul divano, d’un orribile mal di denti, con una manciata di ghiaccio che colasse fuso lungo il collo, muovesse la febbre preistorica del tempo a stomaco vuoto, senza sigarette. Sperare la pioggia, la pioggia che nutre l’anima, la fa montagna, terra pietra, cielo d’identità. Ancora scrivi? Ma sempre guardando altrove. All’ombra di un platano o all’aria mossa dai capelli d’una ragazza in bicicletta, e sorridendo, con profondità.

E a volte il dolore scendeva dal collo come un nodo incandescente nella spalla fino al dito proteso a indicare isole di foglie cadute e sparse, perché l’infanzia è così, l’autunno dei viali che non cessa d’illimpidirsi, la nebbia luminosa e pagine intere di libri cuori. O camminare nella neve fino al mattino, fino alla cattedrale accesa nel suo gotico francese.

Da “Persona minore” (2015)

Altro esilio

1

Così venne la ragazza con i simboli del freddo che/a notte spinge il sonno nei dirupi. Nel verde che bagna le cose il discorso governò i suoi pallidi fuochi. Lungo l’oceano le città tacevano nei sogni nei tormenti dell’amore, nelle piogge raccolte in vasche d’ombra e speranza di chi studia in silenzio. Solo il crepitare dei frutti rendeva pianeta il pianeta, specchio lo specchio, sasso e pozzo il pensiero di Dio.

2

E le radici che sollevano asfalti, spaccano rocce e montagne, asciugano prati, nutrono cieli d’antichissime madri, hanno il sole e la forza feconda dell’acqua, la rabbia remota della vita presente, lo sguardo che arretra la notte nelle vene dei frutti dove inizia l’onda del vento.

3

Amore mio, le costellazioni cambiano nome, dormono nella bocca dei popoli accese d’un più intero spavento. Chi canta ha il fuoco blu e profondo del deserto e cancella i segni dei giorni, altre leggi incontrando nel passo.

**

La neve – I

Abbracciati nella neve del giorno che inizia siamo l’evidenza e l’inganno, il bacio nella bocca, pallido lo sguardo. Un giorno saremo gli assenti, felici come bambini, spighe di cielo, pezzi di luce. Ora però la cosa senza nome si muove in noi come un’onda e come cani dalla carne ci strappiamo la paura, con ossa annegate i ricordi, il sonno sporco del vino pieno di gazze e di corvi, la preistoria che attraversa la voce.

 **

Il mondo del mattino – I

Abitiamo in punti diversi e sparsi della stessa costa. Sogniamo in momenti diversi e sparsi della stessa sosta. I prossimi vecchi siamo noi, in riva al mare a bere il vino delle dieci del mattino.

Da “Archivio del padre” (2020)

24 maggio 2018

Quest’uomo seduto su una panchina nella piazza allagata dal sole. Quest’uomo che attende e ci parla lontano. Quest’uomo prima che arrivassimo era. La statua di mio padre. Antichissima nella luce e un giorno. La mia.

**

8 ottobre 2018

Bisognava avere pietà prima smetterla. Di avere sempre ragione. Ora è venuto il tempo della serietà e della severità. Ora è venuto il tempo della passione e della compassione. Perdono contrario e della. Dimenticanza contrario. Della presunzione.

Le barche si preparano alla nebbia del grande fiume. A raccogliere i bambini del secolo scorso. A salvarli da ignoranza e vanità da. Nidi senza piume

 **

17 dicembre 2018

Ha nevicato per tutta la notte. Il vapore sui vetri del bar. Devo comperare scarponi nuovi. Mandarti queste povere cose immense della vita. I libri che sai. Le foto da bambino. Un altro bicchiere di vino.

Padre il cortile degli anni Sessanta. Palestra scrostata geografia dei giochi del tappo. Schegge di mattone e pozzanghere d’anima soltanto. Ma intanto.

Da “Senza titolo alcuno” (2020)

Venerdì 3 aprile 2020

Io li vedo fuori dalla finestra il ciliegio, le tortore, il giardinetto, il prato della scuola, il mondo e il bisogno che ha di riposarsi da noi.

Giancarlo Sissa è nato a Mantova nel 1961, Vive a Bologna. Come poeta ha pubblicato “Laureola” (1997), “Prima della tac e altre poesie” (1998), “Il mestiere dell’educatore” (2002), “Manuale d’insonnia” (2004), “Il bambino perfetto” (2008), “Autoritratto (poesie 1990-2015)” e “Persona minore” (2015), “Archivio del Padre” (2020),”Tamen” (Moretti&Vitali, 2023). È presente in diverse antologie, fra le più recenti: “Sulla scia dei piovaschi. Poeti italiani tra due millenni” (2016), “Centrale di Transito (ceci n’est pas une anthologie)” (2016), “Sospeso respiro – Poesia di pandemia” (Moretti&Vitali, 2020) a cura di Gabrio Vitali, “Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla rete” (2021). Dalla collaborazione con il fotografo Daniele Ferroni sono nati nel 2019 “L’ultimo ballerino dell’aia” con prefazione di Giampiero Neri e nel 2020 “Lentezza e silenzio e “Il silenzio.” Del 2019 è la plaquette “Il lupo”, del 2022 è “Frontiera”. Le sue poesie sono tradotte in diverse lingue europee. Presta opera di “diarista e narratore in scena” nell’ambito del progetto teatrale “Rosaspina, il tempo del sogno” di Alessandra Gabriela Baldoni.

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