Rita Pacilio: nella raccolta "Quasi madre" dalle radici amare cresce la poesia

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In una recente intervista televisiva, a proposito dell’autofiction e del genere memoir, lo scrittore e sceneggiatore Francesco Piccolo ha dichiarato che vita e letteratura non coincidono mai completamente, in quanto esiste una sofisticazione autoriale inevitabile. Nella poesia questo processo appare quanto mai vero, e non a caso Pessoa scrisse che “Il poeta è un fingitore”, non foss’altro perché i versi di per sé stessi sono frammenti del vero e non una narrazione continuativa, inoltre il linguaggio poetico esige che il contenuto sia secondario all’estetica e al ritmo.

Tuttavia, l’assunto con cui si è dato avvio a questa nota di lettura può risultare sfidante a proposito della raccolta poetica “Quasi madre”, licenziata dalla poetessa e scrittrice sannita Rita Pacilio nel 2022. Le circa cinquanta poesie che compongono l’opera appaiono, infatti, tutte impregnate della più coraggiosa e urticante sincerità, e in una poesia la stessa autrice scrive di sé: “sono la figlia del vero”.
In questa raccolta potente e dolorosa, pubblicata da Pequod, la fase finale della vita di una madre ottenebrata dalla demenza, diviene occasione per l’autrice di evocazione di ricordi e vissuti (“In questi anni c’è stata bufera e poesia”), consegnati al lettore senza apparente filtro o velo, ad eccezione del mezzo poetico. Quest’ultimo aspetto, tuttavia, appare sostanziale e utile a confermare che, sia il ricordo che la sua trasposizione in forma di scritto, implicando il medium del linguaggio, necessariamente tradiscono la piena verità, ammantandola di una percezione di “altrove” e di universalità.

Dunque, una scrittura simbolica e sonora, quale è quella di Pacilio, sottomette persino la concretezza atroce del disamore materno alla forma del frammento ritmico, visionario, a tratti surrealista, evocando archetipi primitivi e verità magmatiche e affidando in prevalenza alle chiusure i tagli più schietti e vivi (“Scappiamo finché siamo in tempo.”; “Ti lamenti e mi fa male il cuore.”; “Non dico niente quando non mi vedi/quando mi neghi un bacio e lo fai apposta.”; “ti sale la vampata/della rabbia e dici: Maledetto il giorno/che ti ho messo al mondo.”; “Che voglia di piangere,/eppure uscirne asciutta già sull’altra sponda.”).

Il percorso della raccolta appare nitido e compatto senza cali tensivi o ritmici, Pacilio esplicita le intenzioni, affidando a versi illuminanti le ragioni dell’io poetico: “tocca a me tornare all’origine”; “dormire nella culla vuota” da adulti; e ancora: “ricostruire il tempo che ci è rimasto”; fino alla preghiera rivolta alla madre: “Lasciami cadere nella ferita”, con l’intento inevitabile di sanarla quella piaga, di chiudere i lembi della lacerazione aperta dal mancato riconoscimento materno.

“Non vedi chi sono?”, oppure: “Hai messo gli occhiali scuri per non guardarmi” sono versi specchiati a cui la poetessa consegna il bisogno di essere visti autenticamente, di essere intellegibili e compresi dalla fonte d’amore primigenio. Questo vacuum è forse all’origine dell’atto creativo che più di ogni altro ha una vocazione dialogica, ossia la scrittura. Ѐ questo, forse, l’esito auspicato dall’autrice: “diventare il libro che non hai mai letto”, un verso metaforico quanto straziante nella sua evidenza, a cui è possibile attribuire la chiamata alla poesia di chiunque affidi alla parola scritta la durata del messaggio e la trasmissione delle proprie istanze afone.

Innumerevoli sono i versi epifanici, aderenti al vero e capaci di suscitare un immediato rispecchiamento: “Ci vuole fegato per fingersi/vivi”; “Si squarcia il corpo anche se nessuno parla”; “è un atto eroico abbracciarti/perché lo spirito guerreggia dappertutto,/ti guardo avversaria, io sono dietro al filo/spinato del continente dove ho scordato/come si sorride.”; “è uno sforzo immane arrivare fino a qui/devota e crocifissa al tuo lamento.”; “prima di vederti ho l’anima/inviolata e non piango mai”.

Se per Philip Larkin “L’uomo passa all’uomo la miseria”, Pacilio crede invece nel potere trasformativo e rigenerante della parola, della poesia che non solo riscrive una realtà ma la rianima, liberando una storia personale dal gravame delle origini, dalla stagnazione, finanche della morte, fluendo verso una foce lontana dalla sorgente, rispondendo a una chiamata esistenziale nuova, in piena aderenza a una spiritualità intima quanto militante che l’autrice ripone nei suoi versi. Poesia come rito sacro, come la realizzazione del fine immanente Tomistico, come espressione di risurrezione: in “Quasi madre” alla fine del dolore, da quelle da quelle “radici amare” è cresciuto un io che scorre senza tregua (“è incredibile/quanto oceano sia diventata”).

La metafora elementale appare ricorrente, ed è un modus compassionevole con cui l’autrice affronta, ad esempio, la tematica delle colpe materne, simbolizzate e traslate nella natura, da intendersi come ciò che è innato e si fatica a governare: “Aiutami a dare colpa alla pioggia/se la vita ha avuto questa voce”; “era colpa degli alberi secolari, l’ombra.”. Al contempo, quando riporta il focus su di sé, Pacilio ribalta la prospettiva: “non dirmi che la terra è vedova/e finita/non giudicarmi colpevole/se provo a rianimarla.”, attribuendosi il potere e la necessità connaturale di non rassegnarsi, per agire sull’esistente e cambiarne il segno.

Nella raccolta è riportato in terra “dal trono della dea” il mito della santità materna, è affrontato il tabù più osceno, ossia l’incapacità di amare il proprio figlio, mediante una scrittura particolarmente visionaria ed espressionista, funzionale a elevare la miseria umana e a separare dalla dimensione gravosa dell’evidenza: “lottare con il verme solitario della veglia”; “aeroplani da guerra i capelli”; “patirei l’efferatezza dei tramonti”; “Adesso la tua forma è una sfera/straziante, un metallo esploso, una mina.”; “con il piede accanto alle ombre/deformi degli uccelli”; “Simile alle lucciole brillano cataratte”; “Respira come sotto/le macerie.”.

Particolarmente ricco è l’impianto figurale, con figure fonetiche (omoteleuto, allitterazione, paranomasia); semantiche (metafore, sinestesie, sineddoche); sintattiche (chiasmo, anafora, abbondanti gli enjambement). Ciò mostra l’esperienza e l’abilità della poetessa, in grado di produrre riusciti effetti di suono, pluralità di significati e straniamento, alimentando meraviglia e distacco dal contingente più oscuro e ferente.

La raccolta segue un ritmo da lungo canto doloroso, una marcia funebre con rintocchi sordi, come un “tamburo a morte/nella gabbia toracica del mondo”, grazie a un ricorso consapevole in particolare all’omoteleuto e all’allitterazione, tramite l’incalzare della parola che scandisce il tempo della lettura, l’autrice gestisce pause e l’affrettarsi del dire, raggiungendo riusciti effetti musicali in assenza di cadute ritmiche (“Ricordati di me quando partirai,/sistema nei bagagli la culla e il mio volto/intatto e bello./Ricorda di portare il vestito della festa,/lo sguardo sereno e tutta la superbia.”).

In “Quasi madre”, “come un filo/legato a una vertigine” una figlia affronta l’elaborazione del lutto per un amore primario mai adeguatamente corrisposto; questo processo avviene mentre la morte della madre non è giunta, con la musa lancinante e “forestiera” ancora in vita. Come è facilmente comprensibile, la ferita non sanata si approfondisce in vista della morte, con l’appropinquarsi della fine delle possibilità di riscatto, dunque, è solo da un atto di coraggioso scavo, dall’immersione nel vulnus emotivo che, in modo salvifico, può infine zampillare l’amore fra i più potenti, quello per sé stessi e per la vita.

“Restituire tutti i baci alla terra.”, è ciò che resta da compiere; “fare il segno della croce” sul dolore, scrivendo la parola fine sulla morte.+-



Poesie dalla raccolta Quasi madre (Pequod 2022)


Dici addio con il fazzoletto

dietro alla finestra: fuori è primavera

in un pomeriggio acceso.

Dici addio ai nomi

richiamando a memoria i pezzi

del corpo e della siepe tagliati

dalle nuvole sopra gli occhiali.

Sdraiata in mezzo ai prati

o sul divano in attesa di un miracolo

giuri all’erba soffice il chiasso

dei petali mentre l’infermiera guida

l’orchestra con la bacchetta

e le favole di Fedro.

Per questo dovrei benedire la montagna

la cima luminosa, il suo profilo,

anche la tua partenza

senza spiegarti cosa conta veramente

se il soprassalto in gola

o il formicolio della mano.

*

Esco dalla porta di dietro

sembro un ragno impigliato nella tasca

di un uccello.

In mano la paura della morte

tre parole balbuzienti e tutti i rumori

che fa con i denti.

L’ho lasciata nella bestemmia

lottare con il verme solitario della veglia:

Qui non dormo, non dormo.

Tremano vetri e palpebre tatuate

lei si gira piegata sul bastone

aeroplani da guerra i capelli

sulla nuca qualcuno è rimasto ucciso

picchiato a sangue.

Luisa le dà il braccio: lunedì ti porto

le caramelle.

Di colpo tutto si fa pianura e nebbia.

*

Oggi le ho detto: Benedici il Signore

anima mia!

L’ho vista coprirsi le orecchie

buttarsi all’indietro sulla poltrona

cancellare tutto con la mano bianca

cadere nelle spalle come una bomba

sui muri.

Se avesse versato lacrime

avrei ingoiato il mare

anche le ombre delle occhiaie

i suoi ottantasette anni e più.

Invece

stende il braccio per superare il vetro

la voglia di dire al mondo:

Portami a casa, qui non ci voglio stare.

Sbattono porte chiuse

si vede lo spigolo del tavolo

poggiarsi a terra:

Scappiamo finché siamo in tempo.

Hai messo gli occhiali scuri per non guardarmi.

Là dove sei si sciolgono parole

non ti scomodare, non devi volermi bene.

È così semplice trovare una scusa

bastano tre secondi per chiudere la bocca

centenaria. Per incapacità di amare

inciampi ancora nella calunnia

ti guardo con commozione, allungo la mano

mentre dentro di te tutte le lupe

gridano a raffica impaurite di saperti

senza pietà.

*

Ricordati di me quando partirai,

sistema nei bagagli la culla e il mio volto

intatto e bello.

Ricorda di portare il vestito della festa,

lo sguardo sereno e tutta la superbia.

Lo so che sei una mamma di altri tempi

con l’erba selvatica tra i piedi.

*

Cominciava la primavera. Anni fa.

Scoprì le margherite sotto i cipressi

e il marmo

era colpa degli alberi secolari, l’ombra.

La madre lavava e ripuliva il granito

ogni tanto le lettere con l’indice.

Conosceva a memoria quel nome.

Le date.

I fiori. Tulipani gialli e qualche parola

Sottovoce gli raccontava la giornata:

I figli crescono in fretta.

Accanto gli operai cementavano mattoni

pietre la nuova casa per qualcuno.

Vuoi fare la nanna?

– parlò alla bambola stretta al petto.

Domani torneremo a spazzare galbuli

a chiederti se hai dormito bene.





Rita Pacilio (Benevento, 1963) è poeta e scrittrice. Sociologa di formazione e mediatrice familiare di professione, da oltre un ventennio si occupa di poesia, musica, narrativa, letteratura per l’infanzia, saggistica e critica letteraria. Direttrice del marchio Editoriale RPlibri è Presidente dell’Associazione Arte e Saperi. È stata tradotta in nove lingue.
Tre le pubblicazioni ricordiamo:
Per la poesia: Gli imperfetti sono gente bizzarra (La Vita Felice 2012); Quel grido raggrumato (La Vita Felice 2014); Il suono per obbedienza (Marco Saya 2015); Prima di andare (La Vita Felice 2016); Al polso porto catene (RPlibri 2019); La ferita dei fulmini (GaEle Edizioni d’Arte 2019); La venatura della viola (Ladolfi 2019); Quasi madre (Pequod 2022); Di ala in ala con Claudio Moica (RPlibri 2022); Così l’anima invoca un soffio di poesia – poesie scelte – (Marco Saya 2023).
Per la prosa poetica: Non camminare scalzo (Edilet 2011); L’amore casomai (La Vita Felice 2018)Per la saggistica: Pretesti danteschi per riflettere di sociologia (Guida Editori 2021); Assunta Finiguerra: il fuoco della poesia (RPlibri 2022); Sui prerequisiti retorico-valoriali del fare poesia Rivista Metaphorica, semestrale di Poesia, Anno I numero 2 (Edizioni Efesto 2022).Per la narrativa: Cosa rimane (Augh Utterson 2021); Il bambino d’oro (Pequod 2022).
Per la letteratura per l’infanzia: La principessa con i baffi (Scuderi Editrice 2015; Cantami una filastrocca (RPlibri 2018); La favola dell’Abete (RPlibri 2018); La vecchina brutta e cattiva (RPlibri 2019); Tre gemelline ballerine (RPlibri 2022); Canzone del Presepe (RPlibri 2022); Tre gemelline sognano (RPlibri 2023); Il guaritore del re (RPlibri 2023).







In copertina, “Mother”, dipinto giovanile ad olio di Aris Kalaizis

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