Antonio Bux: in “Diario dell’intruso” la poesia come simbionte

Autore/a cura di:


<<Ciò che è opposto si concilia, dalle cose in contrasto nasce l’armonia più bella, e tutto si genera per via di contesa.>> (Eraclito)

“Diario dell’intruso”, raccolta di Antonio Bux pubblicata nel 2022 da Marco Saya Edizioni, si muove lungo un asse dicotomico, assumendo e digerendo fino a trasformare la metafora del doppio. In una presa di coscienza della dualità insita nel piano umano e, particolarmente, nella propria esperienza, l’autore si confronta con se stesso ponendo la parola poetica inizialmente come linea di demarcazione tra poli opposti, per arrivare poi a esprimere nel corso dell’opera una coesistenza, mai quieta, che assume la voce della adultità, dell’accettazione e del rimpianto (e io ora grande ho solo questo / volto, e le parole non cercate, qui/ nel luogo di una voce sconosciuta.”).

Nella prima parte di questa ampia raccolta, la forma per lo più breve dei testi (coppie di distici, terzine e quartine secche), mostra un dialogo interiore agli albori: a partire dall’osservazione della natura, protagonista con ricorrenti richiami alla flora e alla fauna, si evince un avvio del movimento di risveglio, di apertura d’occhi dal sogno alla realtà, percepita ancora con sembianze sfumate. 

Anche il ricorso abbondante alle parentesi, poste ad apertura e chiusura di interi testi e dunque non usate con finalità esplicative, confermano un’introspezione in nuce, non definitiva, che procede per tentativi da poter lasciare da parte.
La parola appare più rarefatta, quasi che da una sorta di Eden metafisico o di mondo incantato, evocato da frequenti lessemi tipici della fiaba, il poeta si trovi a dover fronteggiare il vissuto e la realtà: “Sorge il sogno sorge in alto/ fin quando ti svegli/ risorto e ora hai tempo” e ancora: “ciò che la luce dimentica nascendo/ la linea della vita il suo essere più spessa”.

Giorno / notte, luce / ombra, sogno / veglia, spirito / materia, tra queste acquisite polarità il poeta foggiano colloca un terzo elemento centrale (“avere due cuori in più / e un solo cuore al centro”), uno spartiacque oppure un collante: è l’intruso presente nel titolo dell’opera che, come tarlo nascosto, sembra avere il suo nido nell’anima divisa, nutrendosi dell’inquietudine, dell’amore, della “Battaglia di vivere”, delle fatiche, della stasi e del fervore, generando poesia.

La domanda su chi sia davvero l’intruso al centro della silloge, d’altronde, non appare di immediata o certa risposta. La poesia stessa dell’autore pugliese si caratterizza per lasciare i significati sottomessi alla suggestione (“la sovranità della parola/ per l’essere è così// si scioglie alle sue leggi”), all’eco dell’inconscio che si manifesta in visioni, in richiami indiretti, traslati, per i quali una decodifica appare impossibile quanto non necessaria (“C’è sempre stato un segreto a unire”). 


“Diario dell’intruso”, così come tutta la produzione poetica di Antonio Bux, lascia all’impronta lirica e all’evocazione di archetipi e di simboli, la rappresentazione di una dimensione immateriale che è parte della vita dell’uomo tanto quanto quella sensibile. La poesia suggerisce di lasciarsi andare alla perdita del senso comune, “distruggere il pensiero”, per poterne ritrovare uno o più alternativi. 

Il metalogismo, elemento caratterizzante la poesia di Bux, agendo sulla costruzione sintattica, in una ricorrente inversione dell’ordine comune di verbi, soggetti e aggettivi, tradisce i significati e li travalica, modifica la logica, creando una dimensione irrealistica, non più orizzontale e lineare, uno spazio in cui il giudizio e la comprensione raggiungono uno stato di sospensione, creando abbandono e dunque quiete (“Chi è qui con me/ io non lo sono.// Sarà di certo migliore/ come senza di me.”). Nella disarticolazione del linguaggio c’è forse la scelta di non parlare come impone al bambino la correzione adulta, imbrigliando fantasia e libertà espressiva all’interno del canone; tuttavia è proprio attraverso un verso estremamente controllato che l’autore genere l’effetto della perdita del controllo in chi legge, a patto di rinunciare agli appigli razionali (“Siamo ciò che scordiamo.”).


Come detto inizialmente, nella prima parte della raccolta i componimenti appaiono come dei lampi di coscienza affiorata dal sogno; successivamente, invece, il dialogo introspettivo da sincopato e abbozzato diventa un dire denso che si riversa nelle pagine, emerge una vocazione più dialettica, le poesie si agglutinano attorno a una necessità più esplicita di condividere ragioni interiori ed esteriori. Affiora la necessità di un “tu”, i versi traducono ora un’istanza di dialogo con un connaturale destinatario, che non può essere solo l’io solipsistico (“Poter dare un cuore a tutti/ un metallo da custodire//prezioso quanto una pietra/ dentro il proprio fiume”).  

Compaiono dediche, nomi, luoghi, la parola si fa meno astratta, la dimensione realistica prende il sopravvento sull’onirico (“tutto intorno/ la terra è parole”), e una  nuova consapevolezza, per quanto non scientemente auspicata, sembra vicina (“sarà fragile il dono più cieco svegliarsi”.).

In tutta la raccolta si evidenziano figure retoriche di suono, di significato e di costruzione, “Diario dell’intruso” è una partitura in cui scorrono parole e immagini dentro un ritmo personalissimo creato dall’autore, quasi che sia la stessa poesia a muoversi con un suo andamento già scritto (“è tutto un destino a dettare il ritmo”). Anche l’enjambement, figura che ricorre in tutta la raccolta come un lasciapassare o una necessità, più che spezzare la coesione metrico-sintattica diventa funzionale al canto e al fluire della composizione poetica, immagine della vita intera che scorre in “echi di parole”. E se il termine enjambement deriva dal francese e significa letteralmente “scavalcamento”, in “Diario dell’intruso” è un viatico per dare a ogni parola e visione un suo preciso posto, per amplificarne la risonanza, congiungere i valori soffermandosi su ciascuna singolarità perché acquisti un senso nell’insieme. Una sorta di parallelo con l’imparare a leggere, vedendo la realtà emergere dal vuoto (“fortuna di un dio voluto/ mentre parla/ dà a te la sua forma).”.

L’intruso del titolo può identificarsi come il reale autore del diario: assimilato a tratti a un insetto, con una connotazione punitiva per la sua piccolezza e malaccettazione o per la parte di dolore che porta con sé, l’intruso è una specie di simbionte, che necessita del rapporto di interdipendenza con un altro organismo vivente per sopravvivere, fino a diventare un unico essere, non separabile, ospite e ospitante non più distinguibili.

Ed è proprio dal suo restare nascosto a nutrirsi dei conflitti e delle forze interiori che nasce la scrittura.  

Ѐ l’intruso a scrivere, un diario che non ha una forma confessionale tradizionale, alla prosa è lasciata ogni vocazione a guidare e spiegare, è pura poesia che si connota come ricerca inesausta e incompiuta, un “diario mai finito” dove la parola non è fissità o direttrice univoca, è espressione di “un ciclico andare”, dove l’illusione dell’infanzia lascia il posto alla vita adulta (“Riposa, intruso caro, ci sveglieremo grandi”), dove “profondità è dire terra passando”.


Come un tafano socratico, l’intruso pungola la mente e i sensi e costringe a lasciare indietro le cose di prima, a creare una nuova identità; giorno dopo giorno scompare ogni tratto materiale e personale riconoscibile, resta “il volto cancellato”, uno spazio vuoto in cui a parlare ed esistere è solo la poesia.



Poesie dalla raccolta Diario dell’intruso (Marco Saya Edizioni, 2022)


(Da piccolo ero un insetto:
vedevo dappertutto
la luce e il campo verde.

Ora che mi hanno
schiacciato vedo solo
la mia ombra tremare).

*

(Se tutto il mare del mondo fosse
il tuo parlare se il cielo la bocca

come uniti da un bacio di anni
ah se gli anni tornassero giorni).

*

Vieste, estate 1998.

(Hai toccato con l’anima i volti coricati
e le sedie aperte oltre le colline;
hai toccato e ci sei come una marea
che è venuta viva
a dire le maree in una sabbia eterna:

un pomeriggio d’avorio, liscio
e tu che tocchi le persone ferme a ieri
la signora madreperla sulla spiaggia
canta negli occhi è suo figlio
un’onda aperta ecco perché si chiude

la tua bocca mentre baci il mare).

*

(Scavalcheremo prima o poi l’infanzia?
Ce ne sarà un’altra futura?

Chi lo sa se domani vedremo altalene.
Riposa, intruso caro, ci sveglieremo grandi).

*

Ma dimmi tu se sono poesie
queste che scrivo

se sono giorni
se accendono i rovi

dei tuoi capelli o se solo
fanno del fuoco

me stesso. Ma io
non mi parlo, sono poco

propenso a fiorire.

Tu parli, invece, all’orecchio
la maledizione del dire

se siamo ancora, se saremo

più forti di essere, così ora
mi dici ciao per sempre.

*

Il silenzio è di Dio.

Avvicinandomi alla vetta
un suo verbo mi ha detto:

sei arrivato alla radice
ora per la cima devi
tornare di sotto.

Allora mi sono voltato
e dietro di me c’era

un’altra parola. E quella
parola ero io.

*

Ti guardo, diario mai finito, fermo
sulla pagina dei miei trent’anni.
Non c’è lupo nelle parole, forse
un luogo che la parola è vita
e io ora grande ho solo questo
volto, e le parole non cercate, qui
nel luogo di una voce sconosciuta.

Ma la vita è avere occhi sbiechi
come un dirupo in dinastia dal cielo
ha eredi in terra solo se si muore
solo se nel giorno è la notte in erba
e scava occhi bui in noi per sempre.
Perciò ti apro, diario nel tuo centro,
ho da scrivere la notte il suo restare.





Antonio Bux (Foggia,  1982) ha pubblicato, tra l’altro, Trilogia dello zero(Marco Saya 2012), Kevlar(Società Editrice Fiorentina 2015), Naturario (Di Felice 2016; finalista premio Viareggio), Sasso, carta e forbici (Avagliano 2018) e il recente La diga ombra (Nottetempo 2020; finalista Camaiore premio speciale; premio Umbertide XV aprile). In spagnolo ha pubblicato 23 – fragmentos de alguien (Buenos Aires 2014), El hombre comido (Buenos Aires 2015), Saga familiar de un lobo estepario (Toledo 2018) e in vernacolo foggiano la silloge Lattèssanghe (Le Mezzelane 2018). Come traduttore ha curato i volumi Finestre su nessuna parte (Gattomerlino Superstripes 2015) di Javier Vicedo Alós, Bernat Metge (Joker 2020) di Lucas Margarit e Contro la Spagna e altri poemi non d’amore (Nessuno editore 2020) di Leopoldo María Panero. Redattore e rubricista per la rivista Avamposto, ha fondato e dirige il lit-blog Disgrafie e alcune collane per le Marco Saya Edizioni; per l’editrice RPlibrie per Graphe.it Edizioni.






Fotografia in copertina di Andrea Semplici

Lascia un commento

Sito web creato con WordPress.com.