L’amore è una perla irregolare, una goccia di luce che si lascia attraversare dall’ombra e che proprio per questo brilla di più. Non nasce mai compiuto: lo si scorge nella sabbia raccolto con esitazione, come se le dita temessero di violarne il segreto. È una fiamma senza posa, un respiro caldo che si avvolge intorno al tempo e lo costringe a dilatarsi, a restare, a durare. Ma la fiamma è anche capricciosa: basta un soffio, una distrazione della mente ed eccola tremare, farsi più sottile, quasi a voler confessare che niente, davvero niente, è garantito una volta per tutte.
Si dice che dell’amore non si possa parlare senza tradirlo. E forse è vero, perché ogni parola è troppo pesante per qualcosa che vive nel quasi, nell’ancora, nell’ormai. Quando proviamo a descriverlo, la lingua si spezza in un florilegio di metafore: e come potrebbe essere altrimenti? L’amore è una frontiera che non si lascia attraversare: è fiume e argine, vento che spinge e mano che frena. È il silenzio prima di un bacio, quando il mondo trattiene il fiato; ed è lo strappo dopo un litigio, quando tutto sembra andare a picco sul punto di dissolversi.
Nel desiderio si annida il suo primo battito: una fame che nessun verbo sa contenere. Desiderare è tendere, fendersi, diventare arco estremo rivolto verso l’altro. È un moto che accelera, un precipizio dolce in cui ci lasciamo scivolare pur sapendo che, da qualche parte, potrebbe aprirsi il vuoto. Eppure andiamo comunque, perché l’amore è un rischio che non sappiamo rifiutare. Ogni volta speriamo che le braccia pronte ad attenderci sappiano reggere l’urto, che il nostro nome trovi un’eco capace di vibrare fino a distanze siderali. Amiamo e ci diciamo che sì, l’amore è più forte della morte, anche se poi la morte – quando arriva – si prende tutto e spazza via ogni cosa. E allora forse è la morte ad essere più forte, chissà: ma cosa importa?
Quando due si amano vivono l’eterno. E non ci pensano che possa finire. Quando due si amano, il tempo non esiste e la morte non fa paura.
E poi, oltre a quella erotica, c’è un’altra forma d’amore. La più paradossale. L’amore sottosopra, il fuorimisura estremo. Nasce proprio dove nulla sembrerebbe poter fiorire: l’odio. Sì, l’amore agapico, l’amore per il nemico è una perla generata dalla ferita più purulenta. Un paradosso antico e impronunciabile: solo laddove c’è un nemico può esistere l’amore che lo trascende. Senza la sua ostilità, senza il peso del suo ostinato livore, nessuno potrebbe elevarsi fino alla forma più alta dell’amare. È come se l’odio stesso fosse l’argilla da cui modellare il gesto che libera dal rancore, come se la presenza di chi ci ferisce rendesse possibile il miracolo di un amore che non risponde alla logica del cuore, ma a quella di una profondità più grande. Amare il nemico è sfidare la gravità dell’umano, è offrire acqua alla terra bruciata sapendo che potrebbe rifiutarla, ma continuando a versarla lo stesso, senza fare calcoli.
E insieme a questo paradosso luminoso, ci trasciniamo dietro all’amore anche il suo gemello oscuro: il timore dell’abbandono. È un animale silenzioso che cammina accanto alle nostre ombre; a volte dorme, altre spalanca gli occhi e morde. Ci ricorda che l’amore non è mai un terreno stabile: è un equilibrio in bilico, una corda tesa tra due cuori che oscillano, esitano, si sbagliano. E tuttavia restano. O almeno ci provano a restare. Perché l’amore, nella sua tensione alla durata, non è solo la promessa d’eternità, ma il tentativo quotidiano di restare fedeli a un’intuizione: che l’altro valga davvero il tremore, la paura, la gioia inattesa.
C’è una complicazione intrinseca in tutto questo: amiamo come se fosse semplice, e invece è un intreccio di nervi e ricordi, di fragilità che chiedono di venire accolte senza essere giudicate.
E sì miei cari, l’amore non è lineare e non lo sono nemmeno questi miei appunti strambi. È un labirinto che cambia forma mentre lo attraversiamo. A volte troviamo corridoi luminosi, altre volte muri che non avevamo previsto. Eppure continuiamo a percorrere fino in fondo la via del desiderio, perché sappiamo che ogni svolta potrebbe essere una rivelazione. Ogni deviazione un nuovo inizio. Un inizio che non possiamo pronunciare. E non perché manchino le parole, ma perché nel suo punto più estremo e radicale, l’amore eccede la parola stessa. Ci sfugge mentre lo stringiamo, si nasconde nei dettagli: una risata improvvisa, due occhi clamorosi che ci trapassano, un gesto che nessuno vede ma che decide tutto. È un alfabeto che impariamo vivendo e che continuiamo a riscrivere ogni volta, quando guardiamo l’altro come fosse la prima volta.
