La letteratura è un territorio immenso, un continente disordinato e fertile, popolato da voci e narrazioni di varia natura; e tuttavia in quel coro confuso, alcune opere si innalzano come cime che si stagliano sul paesaggio, e non perché raccontino storie più avvincenti o intrecci più ingegnosi, ma perché aprono una breccia nel visibile, costringendoci a infilare lo sguardo nel cuore sterminato del firmamento, verso un orizzonte di senso infinito che non si lascia mai afferrare del tutto.
È in questo gesto, in questo sollevare gli occhi e condurci con sé verso il cielo, che la letteratura diventa alta e si fa pensiero. E il pensiero, lo sappiamo, non consola, anzi scalfisce, mette in crisi, incide la carne viva. Genera una lotta tra il lettore e la parola, un corpo a corpo che può trasformare davvero l’esistenza.
Da questo punto di vista, se si vuol prendere sul serio la letteratura, bisogna sporcarsi le mani col testo, lottare col senso come Giacobbe con l’angelo. È così che la scrittura lascia un segno. E Antonio Spadaro ha ragione a ricordarcelo, quando scrive in Abitare nella possibilità (Jaca Book, 2008) che «se la letteratura non si confronta con le tensioni radicali di una vita umana, non serve a molto».
Non serve, infatti, se non apre a una sproporzione, se non ci obbliga a interrogare le questioni estreme che dilaniano l’uomo. Senza quell’apertura, quella ferita, resta solo un intrattenimento che passa e scivola via. Ogni pagina autenticamente letteraria custodisce invece una crepa, un varco sottile da cui penetra un respiro diverso, un movimento che spinge il lettore oltre la narrazione, oltre i confini della pagina, in direzione di un altrove. Ecco perché la sola abilità tecnica e la raffinatezza dello stile non bastano a fare un grande romanzo o una raccolta poetica memorabile: la misura vera di un’opera sta nella sua forza di squarciare il reale, di costringere il lettore a risemantizzare il presente, attraverso l’antico e sempre nuovo intreccio di simboli, di suoni, di significati che si rincorrono a perdifiato.
Dante, con il suo viaggio nell’aldilà, non disegna solo un itinerario ultraterreno: mette in scena il cammino esistenziale dell’uomo, e innalza il cielo a misura della vita terrena. Shakespeare, con l’esitazione di Amleto, non racconta soltanto un dramma dinastico, ma consegna al lettore l’abisso della domanda più radicale: essere o non essere. Kafka, nei suoi universi soffocanti, restituisce l’angoscia di chi si perde fra le maglie dell’istituzione e dentro se stesso, eppure apre, con la sua scrittura, a una dimensione simbolica senza fine.
Ogni personaggio che si fa archetipo, ogni vicenda che si trasfigura in parabola appartiene a questo territorio dell’alta letteratura. Così Don Chisciotte, che vede castelli invece di semplici osterie, o giganti dove ci sono soltanto mulini: egli incarna la tensione verso un altro mondo possibile. La sua follia è immaginazione allo stato puro, e proprio in quello scarto, in quella distanza tra realtà e sogno, si apre lo spazio sterminato della poesia.
E quando questo miracolo accade sulla pagina, la letteratura diventa inesauribile. Ovvero, non si lascia consumare in un’unica lettura, non si lascia possedere mai del tutto: ci accompagna nel tempo, cambia con noi, ci restituisce domande sempre nuove, e proprio per questo resta viva. È così che certi libri sfidano i secoli e continuano a parlare a generazioni lontane: perché non si riducono a un intreccio chiuso, ma custodiscono una forza sorgiva che non invecchia, un’apertura di senso che scorre sotto le parole.
Ciò non significa che la grandezza di un’opera coincida necessariamente con l’oscurità o con la complessità del testo. Talvolta l’altezza abita in una frase semplice, in un dettaglio minuscolo, in un dialogo ridotto all’essenziale. Basti evocare i racconti di Čechov: poche pagine appena, eppure lì dentro un destino intero si svela, lasciandoci sospesi tra l’istante e l’eternità. L’altezza non sta nella difficoltà, ma nella densità, nella capacità di far trasparire, parola dopo parola, un senso che trabocca.
Si potrebbe allora dire che l’alta letteratura è quella che, mentre tiene ancorati a terra, spinge a sollevare lo sguardo. Non offre risposte già pronte – anche perché non ce ne sono –, ma introduce il lettore nel regno delle domande inesauribili. Non tranquillizza, inquieta. Non intrattiene soltanto, ma accompagna nella trasformazione.
La letteratura che dà a pensare è come una fenditura nella roccia: ci invita ad attraversarla, senza rivelare mai del tutto ciò che c’è dall’altra parte. Ogni volta che ci avviciniamo alla soluzione o pensiamo di avere qualcosa in pugno, l’orizzonte si sposta un po’ più lontano e ci chiama di nuovo a rinominare il mondo.
Leggere un grande libro è allora un po’ come imbarcarsi su una nave che non approda mai in porto: il viaggio non conosce fine perché il mare si rinnova ad ogni onda, e sopra di noi resta il cielo, silenzioso e infinito, a vegliare giorno e notte. E ciò che rimane, quando il libro si chiude sull’ultima pagina, non è una risposta rassicurante, ma il vento lieve, ostinato e inesauribile, che continua a spazzarci via i pensieri soffiandoli lontano, chissà dove.
