Soul (IV): Il canto delle cose

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La luce ritorna ogni mattina. Non domanda di essere accolta, non chiede nulla in cambio: semplicemente appare così com’è; tempio del mondo vivo. Il sole attraversa l’aria e, nel suo passaggio, tutto prende forma. Le case vestono colori disparati, tenui fluo e sgargianti. I corpi si riscaldano e la vita cola nel fiore di ogni tempo. È un gesto silenzioso eppure radicale quello del sole: senza di lui il mondo resterebbe inerte, sospeso in una penombra quasi eterna. La sua presenza invece è promessa di continuità. Un giorno uguale all’altro si ripete, ma non c’è abitudine che riesca a consumarlo. La luce non diventa mai banale: trapassa il vetro, si posa sull’erba, accende le pupille al fuoco vivo. È come un canto antico che non smette mai di rinascere sul punto di finire.
Poi giunge la notte che non cancella ma serba in cuore. E la luna a quel punto sale discreta, sembra una sacerdotessa muta, quieta. Sale e regala il suo pallido chiarore a un cielo che quasi muore, fra diluvi di supernove e stelle brillanti, come briciole sparse nel nero. Il buio è certo assenza, ma al tempo stesso vero grembo che protegge, silenzio che consente il respiro. Nell’ombra scura della notte s’insinua un capogiro di semi e si rigenerano profonde le radici: anche l’uomo ritrova il proprio palpito interiore.
La notte non è nemica del giorno: è il suo necessario contrappunto. E chi resta sveglio, sotto le costellazioni sterminate, ascolta una musica che non appartiene alla terra ma al respiro profondo dell’universo.
E il vento passa e non si vede, ma si sente. Fa vibrare i rami, gonfia le vele, modella le nuvole sfinite. È un viandante instancabile il vento, che non conosce dimora ma alberga in tutti i luoghi. Non si lascia afferrare, eppure lascia ovunque segni del suo passaggio. È forza. È coraggio che spinge, carezza e consola: tempesta burrascosa e placido respiro. Nel suo infuriare tra le gole e precipizi o sugli altipiani sconfinati porta con sé la memoria delle distanze, il ricordo di terre che non abbiamo ancora visto, la possibilità di una partenza in un clamoroso chissà quando verso un lontano chissà dove. Nel suo costante e circolare movimento c’è un messaggio semplice del vento: nulla è fermo, ogni cosa viaggia a appare per poi sparire o per apparire nella sua scomparsa. E il suo soffio sembra forse dire: «Non temere… Non temere! Il mondo è più vasto di ciò che puoi immaginare».
E insieme al vento l’acqua: scorre, cade dall’alto, disseta e leviga la terra arsa. Fragile e potente al temp(i)o stesso. Limpida, non possiede nulla, eppure è ricchezza che sostiene ogni creatura. Dove manca, la vita si ritira; dove abbonda, la vita esplode. L’acqua accoglie senza discriminare, si lascia attraversare e trasforma tutto ciò che tocca. È sorella e madre, trasparente e inesauribile: una scintillosa promessa di rinascita. Dentro le sue correnti si specchiano le nuvole, vi danzano nel tuono i riflessi del cielo, e il mare stesso respira sale e spuma, come un enorme animale azzurro che tutto abbraccia.
E poi la terra. Sì, la terra sostiene e sopporta il peso degli uomini, degli animali, accoglie i semi, offre frutti. Si lascia ferire eppure rinnova, si lascia scavare e al contempo continua a donare. È ventre oscuro e fertile, pelle rugosa, generosa. Nel suo silenzio custodisce ciò che siamo stati e ciò che saremo – forse domani… sempre che dire domani abbia un senso, una misura… La terra è misura della pazienza: non si affretta, non esige, attende. Dimora e ritorno, inizio e fine: dipende. Ogni passo che compiamo è un dialogo con lei: la terra ricorda tutto anche quando noi dimentichiamo.
E ancora il fuoco arde. Illumina e riscalda, ma nel riscaldare consuma, distrugge. La sua fiamma è ambivalente, fugge: compagna e minaccia, conforto e pericolo. Intorno al suo bagliore gli uomini si radunano, raccontano storie, trasmettono memorie ai posteri. Nella sua lingua che danza, arde il mistero stesso della vita: la capacità di distruggere per generare ancora, di consumare per purificare.
Così parlano gli elementi. Con la voce che Francesco seppe ascoltare nel suo Cantico delle creature, quando chiamava fratello il sole, sorella la luna, fratello il vento e sorella l’acqua. E per ultima la morte: non negazione, ma compimento di un tutto inestricabile e complesso. È la soglia attraverso cui ogni cosa – dalla più imponente alla minima, minimissima, che si direbbe quasi insignificante – si dissolve e ritorna a cantare in altra forma.
Il mondo intero allora canta canta e canta… La luce e l’ombra canta. L’acqua e la pietra, il vento e il fuoco, la terra e il seme, l’animale e l’uomo canta: tutto compone un inno che nessuno scrive e che pure ognuno celebra. Il mondo intero è un canto delle cose, l’ultimo ring teso sul filo dell’amore un attimo prima del gong. L’amore brillante e fiero. L’amore che canta senza più voce e ci ricorda la nostra significante insignificanza. Non siamo padroni, ma ospiti. Non signori, ma pellegrini. Custodi provvisori di un equilibrio fragile e potente. Capaci di questo straordinario niente, chiamati non a dominare la bellezza, ma a lasciarci trasformare dallo stupore.

E là, nel silenzio che segue ogni parola, si intuisce l’eco di una bellezza che prende la vita a morsi

e non smette mai
di masticarci il cuore.