La lingua degli uccelli (XXV)- Il Cigno: divino, elegante, obeso e crudele (ovvero ogni poeta vede il mondo a modo suo)

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(con poesie di Arturo Graf, Grytzko Mascioni, Paolo Valesio, Fabio Pusterla e Giuseppe Conte)

In quella che è forse una delle più celebri poesie, non solo sul Cigno ma sull’intero regno degli uccelli, The wild swans at Coole, I cigni selvatici a Coole William Butler Yeats ammira quelle «brilliant creatures[1]» rendendo con un solo aggettivo la magnificenza e la bellezza maestosa dei cigni, e la loro bianca e lucente purezza, ribadendo al quint’ultimo verso della poesia un più perentorio «beautiful».

L’elegante e candida bellezza condiziona, dunque, se non il principale, almeno il più immediato impatto con il Cigno reale (Cygnus olor), come vediamo essere ben testimoniato, prima di esaminare gli italiani, da un florilegio di poeti europei: «splendido [e] magnifico» (Stéphane Mallarmé[2]); «regale» e «così bello» (Rainer Maria Rilke [3]); «immacolato [dall’]ala candida» (Paul Valery[4]), «lucente» (Dylan Thomas[5]) e bianca come «neiges d’avril» (Sully Prudhomme[6]).

Ma il Cigno non è solo eleganza e bellezza. Occorre, però, fare un passo indietro e fornire le forse meno affascinati, ma necessarie, coordinate ornitologiche, altrimenti non sarà possibile discernere realtà, finzione e riverbero simbolico-mitologico nel cigno poetico.

I cigni appartengono all’ordine degli Anseriformi e alla famiglia degli Anatidi, la stessa di anatre e oche. In Italia è osservabile quasi esclusivamente il Cigno reale (Cygnus olor). Il Cigno selvatico, Cygnus cygnus, (che si distingue dal reale per il becco giallo), infatti, èraro e viene avvistato soprattutto in zone umide e nei laghi del Nord, in inverni particolarmente rigidi; il Cigno minore (Cygnus columbianus) è presente solo accidentalmente, con individui isolati durante le migrazioni. Merita ancora citare il Cigno nero (Cygnus atratus), specie alloctona ornamentale non nidificante, per la sua particolare valenza metaforica[7].
Pertanto, quando diremo “cigno”, senz’altre specifiche, intenderemo il Cigno reale, che è presente in Italia anche come specie selvatica nidificante (in gran parte nei laghi lombardi, come quello in immagine di copertina) ma soprattutto per l’introduzione di esemplari a scopo ornamentale in parchi, giardini e laghetti artificiali. I cigni reali hanno popolazioni selvatiche nel Nord Europa, si riuniscono in gruppi anche di diverse decine, ma tendono a essere poco migratori e in molte aree del nostro continente sono diventati una specie residente. Nella poesia Mappa dei voli, Pier Luigi Bacchini osserva gli incroci dei voli primaverili dei migratori: cicogne, gru…ed anche «i vocianti cigni [che] s’adunano / con disperazione di urli / e di versi inconcludenti / e pieni d’echi»[8].

Il Cigno è uccello ben presente nella mitologia, nella simbologia e nella cultura. Almeno tre le situazioni da puntualizzare. Se la celeberrima fiaba di Hans Christian Andersen, Il brutto anatroccolo, si colloca nel solco della bellezza del Cigno (adulto, che il pullo sembra in effetti un goffo anatroccolo grigiastro), gli altri due contesti che vedono protagonista la candida creatura – e che riverberano tutt’ora intensamente nella lingua e nella poesia – sono quelli relativi al “canto del cigno”, mito ancor più noto dopo essere stato messo in scena da Čajkovskij ne Il lago dei cigni, e alla leggenda di Leda e del cigno.

Il canto del cigno

C’è qualcosa che stona, mi si scusi il gioco di parole, nella questione del “canto del cigno”, se il Cigno reale è noto anche come “cigno muto”! Per altro il Cigno selvatico (Cygnus cygnus) è detto anche “cigno canoro” o “cigno musico” ed è l’unica specie dell’area eurasiatica a emettere un suono gradevole ed armonioso, smentendo anche uno dei più grandi osservatori delle cose della natura, Lucrezio: «il breve canto del cigno è sicuramente più nobile / dello schiamazzo fatto dalle gru[9]». Ma nulla che sia, etologicamente, di sostegno alla leggenda che il cigno canti prima della propria morte! Il detto è diventato idiomatico, per indicare l’ultima grande opera di un artista prima della sua morte o del suo ritiro e, per estensione l’ultima espressione di vita di un essere, il canto di addio al mondo. Deriva da un’antica leggenda, narrata da diversi autori greci e romani come Esopo[10], Aristotele[11] e Platone, nella quale si credeva che i cigni, normalmente silenziosi, cantassero una melodia bellissima e struggente proprio prima di morire. Il “canto del cigno” commentato da Platone si riferisce alla celebre metafora utilizzata nel dialogo Fedone[12], dove Socrate paragona la sua imminente morte alla gioiosa profezia dei cigni prima della loro dipartita: «i cigni, [che] quando si accorgono che bisogna che essi muoiano, pur cantando anche nel tempo di prima, allora proprio cantano moltissimo e benissimo, essendo contenti perché stanno per andarsene presso il dio [Apollo] del quale sono ministri». È chiaro che gli autori greci ripresero una credenza popolare[13] trascinatasi anche nell’iconografia della poesia moderna: Arturo Graf, per esempio, vi dedica un sonetto che, nella ridondanza iper-realistica di niveo candore, fa risuonare dritto nel timpano il verso «O poeta é um fingidor» di Pessoa, per quanto riguarda la «gemebonda canzon del morituro»:

Il canto del cigno di Arturo Graf[14]

Tenebrosa di larici la breve
Ripa il lago cristallino circonda;
Sovra la dormiente acqua profonda
Galleggia un cigno in un baglior di neve.

Presso è il cigno a morir: candido e lieve
Sta sullo specchio immobile dell’onda,
E canta volto al sol; la gemebonda
Canzon del morituro il sol riceve.

Il canto soavissimo di blande
Risonanze empie l’aria e una suprema
Tristezza via pei campi ermi si spande.

Tramonta il sole, e sulla nitid’ala
Piega il cantor la testa, e con l’estrema
Nota l’armoniosa anima esala.

Topos radicatosi nonostante la sua insussistenza, cui non si sottrassero né Leonardo da Vinci («dolcemente canta nel morire, il qual canto termina la vita»[15]) né Giambattista Marino («Canta […] il musico pennuto / […] con canto mortalmente arguto / suol celebrar l’essequie sue funeste»[16]. Giovanni Pascoli ne descrive il canto, ma ha una tripla “attenuante”: 1) non lo correla alla profezia di morte; 2) dato ornitologicamente significativo, circostanzia l’ascolto nella «luce boreale» di un’«infinita tenebre polare», areale del Cigno selvatico (il “musico”) e non del Cigno reale e, infine, 3) evoca le «arpe», vestendo, di fatto, il suo componimento di un’aura palesemente mitica:
«Il cigno canta. […] / rombano le sue voci lunghe e chiare, / come percossi cembali di rame. / […] / Come arpe qua e là tocche, il metallo / di quella voce tìntina»[17].
In tempi più recenti, il “canto del cigno”, se ancora presente nei versi italici – è buona cosa – viene tuttalpiù riportato idiomaticamente e non più come realtà zoologica.

Leda e il cigno

Il mito greco di Leda e il cigno racconta come Zeus si invaghì di Leda, regina di Sparta e moglie del re Tindaro e, per sedurla (tanto per non smentirsi!) si trasformò in un cigno. Leda, abbagliata dalla sua pennuta bellezza, lo accolse e i due – divino e umana – si unirono. Da questa unione, Leda depose due uova: da un uovo sarebbero nati Polluce ed Elena di Troia (immortali), mentre dall’altro Castore e Clitennestra (mortali), figli del re Tindaro.
Questo mito – nel quale la bellezza del Cigno torna ad avere parte importante anche nei versi – ha attratto, ancor più del tema del canto del cigno, scrittori e poeti di ogni epoca, da Rilke, che in Neue Gedichte (1907) rivive il mito nel sonetto Leda («Tanto era bello, che il dio provò quasi spavento / quando entrò nel cigno […] Nel grembo suo, si fece cigno il dio, davvero»[18]) a W.B. Yeats[19] e, ancora, a Dylan Thomas nella altrettanto magnifica Il mattino, spazio per Leda dove « Il mattino è anche tempo d’amore, / Quando Leda, sulle punte di piuma, / Balla qualche battuta con il cigno / Che l’avvinghia con le forti ali bianche»[20] e dove viene nel solco tra notte e mattino pizzicato un «accordo d’arpa» riproponendo l’accostamento tra lo strumento celestiale e il cigno, letteralmente divino, in questo caso.
In Italia, il mito di Leda e il cigno è stata utilizzata come immagine simbolica o topos letterario, specie nelle stagioni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, periodo in cui i modi e i nodi del decadentismo, del classicismo e del simbolismo si intrecciarono. Come in Gabriele D’Annunzio (che a una enigmatica e moderna Leda – La Leda senza cigno[21] – dedica un intero corposo racconto sui generis) del quale il più significativo testo sul mito si trova in Isaotta Guttadauro ed è Romanza IV[22], dove, tra estetismo e simbolismo, la vicenda viene rielaborata e da evento brutale, come in Yeats, s’inclina verso un’unione sensuale e quasi mistica. Più che le molte e potenziali valenze (superomismo, unione generativa tra il divino e l’umano – «un’alma prole / nascerà da connubii / poi che il cigno è divino» – ecc) attribuite a tale testo, nel nostro più ristretto cantuccio ornitopoetico ci limitiamo a tracciare, anche qui, i segni dello splendore animale: «Nobili e puri, splendono / quali forme di luce». Anche il dannunziano poeta e storico Domenico Gnoli (1838-1915) ha seguito e proposto, nella poesia Leda pubblicata nella raccolta poetica Eros del 1896, suggestioni similari, richiamando immancabilmente «le piume / candide del bel cigno senza nome.»

Ma è tempo – saldato il debito informativo (il tono secco è per bilanciare gli eccessi di lirismo ed estetismo e le tonalità tardo ottocentesche e del primo Novecento) circa il canto del cigno e il mito di Leda e il cigno, vediamo cosa ci propone la poesia italiana più moderna o contemporanea sul Cygnus olor e sui suoi cugini.
Eugenio Montale avvia la poesia Nel parco di Caserta[23], contenuta ne Le occasioni, con l’osservazione di un Cigno negli specchi d’acqua del giardino della Reggia. Possiamo dire che si tratti di un Cigno reale domesticato e ornamentale, che appella con un aggettivo inatteso: «crudele»[24], che si potrebbe anche riferire al comportamento battagliero e aggressivo, in certe situazioni difensive o di diffidenza, del volatile. Nulla di troppo strano, la questione è che il Cigno reale supera di media i dieci chili di peso e può provocare danni anche rilevanti col becco e con i colpi delle possenti ali.
Già che stiamo demitizzando il nobile, puro e splendente anatide, giunge al momento giusto Grytzo Mascioni (1936-2003), uno dei più rilevanti poeti svizzeri italianofoni del secondo Novecento, col Dell’obeso cigno, dove l’eleganza e la grazia dell’uccello sull’acqua si perdono nel suo goffo incedere a terra:

Dell’obeso cigno di Grytzko Mascioni[25]

Ingannevole forma, insinuante
insidiosa beltà che sensuosa
dall’onda levi il tuo suadente invito
a pensare la grazia o l’arabesco
gentilmente proteso del tuo collo
a un illìmite spazio, la grafia
di un dio elegante o esteta, manierista
dell’eterno piacere… Ma il tracollo
di ogni incauto pensiero, amara spia
del diluvio del vero in cui si arresta
il battito del cuore sconfessato,
dice le cose come sono e stanno.
Basta emerga dall’acqua, esca e traballi:
Goffa avarizia dell’obeso cigno
che barcolla al suo peso sbilanciato,
irosa vena e truculento affanno
del becco arcigno, del rancore alato
che ne disvela il sé più veritiero.
Eppure è in tale cruda bestia, il senso
dello specchio che giova
al mio monco sapere:
così mi trovo a riscoprirmi informe
là dove illuso mi pensai conforme
a un disegno sottile, alla pretesa
di fare chiaro il mondo
(se anche il cigno gentile che veleggia,
conturbante miracolo sull’acqua,
sciacqua le piume, approda e si destreggia
come può nel suo immondo zoppicare:
altro lemma severo da imparare).

Emulo dell’albatros baudelairiano, viene da pensare. Anche, certo, ma soprattutto emulo del cigno di Charles Baudelaire, forse uno dei più noti della letteratura moderna, «fuggito dalla gabbia [che] raspando il selciato asciutto con le zampe palmate, / trascinava sul terreno accidentato il bianco piumaggio. […] mito strano e fatale»[26].
Mito decaduto, si potrebbe perfino dire, anzi mito diventato problema (e quando mai, che il Sapiens i problemi prima li crea e poi dopo si accorge che sono tali e ne fa pagare le conseguenze al pennuto, al quattrozampe o all’animale di turno?). Così succede che a New York e in diverse aree dello Stato i cigni introdotti a scopo ornamentale dall’Europa nel tardo Ottocento sono diventati troppi – anche per il malcostume dei locali di ipernutrirli per diletto di grandi e piccini. Così, “stranieri”, “cattivi”, “aggressivi”, tecnicamente “specie invasiva proibita” a New York si era pensato nel 2014 di sterminarli, – gassati e presi di mira da tiratori scelti -, di eradicarli drasticamente entro il 2025[27]. La fortissima reazione pubblica ha rallentato e spinto ad adottare tecniche di contenimento non cruento, come l’oliatura delle uova (“egg-oiling”), che ne impedisce lo sviluppo embrionale senza uccidere il genitore. Ho voluto riferire quanto sopra, leggendo alcuni testi che Paolo Valesio, il quale ha vissuto i decenni del suo insegnamento universitario a New York e negli USA, ha scritto sul Cigno. Inseriti nella raccolta Il volto quasi umano, in essi prevale, in un paesaggio rarefatto, il gioco del bianco «marmato» del cigno, e di quello di orizzonti di nebbie e nevi.

Ecco un vivente arazzo d’improvviso, II di Paolo Valesio[28]

Sei bianca è la neve, allora
i cigni sono candidi: li vede
or no or sì attraverso i ricami
tracciati dalla neve sopra i rami
mentre si fan portare
dall’acqua color ferro.
Il bianco della neve è argentato,
il bianco dei cigni è marmato.
Così resiste il lago: in dolce
ribellione all’inverno
delimita lo spazio
della nuova stagione.

Più versi e meno discorsi, per finire, nemmeno potendo accennare al “cigno nero” e alla costellazione del Cigno. Fabio Pusterla rimarca «l’aria aggressiva» e, lontani i tempi di Zeus incarnato, quanto le carni valgono poco. E sui cigni che osserva Giuseppe Conte nulla aggiungerei, se non di godersi la lettura!

A Lucerna, III di Fabio Pusterla[29]

I cigni non si azzardano
troppo: la corrente
li porterebbe via.
Stanno nel lago,
si lisciano le penne candidissime
e hanno l’aria aggressiva.
Le loro carni,
dice chi le ha provate,
valgono poco:
insipide e coriacee.
Se qualche volta piangono
non si fanno vedere da nessuno.


I cigni sul Corrib di Giuseppe Conte[30]

I cigni sul Corrib un mattino
li abbiamo creduti di lontano bolle di schiuma
agghiaccianti sacchetti bianchi alla deriva.
Invece erano loro, gli alati antichi
dalle piume candide, dal collo, tu
dicevi «come un punto interrogativo».
Lenti, sfilanti, più di un branco, non
pigri, stabiliti come nelle acque
di un lago, troppi, più di quanti
pensavamo che potessero stare insieme,
ma soli, isolati, intenti
chi a pescare col capo inabissato
chi a drizzarsi contro la
corrente dai riflessi di ghisa
ispida di lontani venti. Il
ponte dei salmoni laggiù, la cupola
verde di St. Nicholas, procellarie
in un volo continuo, di cabrate
e affondi contro i moli, quegli strani
moli erbati e deserti.
Sul Corrib, erano i cigni padroni.
Un popolo, chissà come lì, da
dove venuto, «altovolanti» vuole Esiodo
i cigni, e tu lenivi il mio terrore:
«non volano, non volano»: ma alzati
tutti insieme oh l’avrebbero incipriato
d’ali e mistero il cielo, strepitato su tutta
Galway, e dove sarei mai fuggito
io?
Non volavano. Certi, grandi, solinghi
arrivavano fino al mare aperto, al largo
dei pontoni mobili, quasi a lambire
le fiancate dei cargo
in rotta verso Inishmore
certi, prossimi ai muschi della
sponda, aprivano le ali in un attimo, tendevano
il capo come a scrutare
qualcosa di introvabile in terraferma.
Qualcuno, anche tra i cigni sono
i dandies, i beaux, sollevava appena
un po’ la zampa palmata, negligente-
mente la portava sul dorso, pinna, elica
nera nel golfo bianco delle piume.
E poi c’erano quelli, i più soffici, che
lasciavano crollare il collo, il capo
nascosto tra le ali, e rimanevano
a galleggiare come cialde, ciambelle
chiare, dicevi «deve esser bello
lasciarsi andare così» tu che privilegi il
sonno.
La sera dal ponte dei salmoni li abbiamo invano
cercati. Solo uno era rimasto, uno
dei dormiglioni, un fagottino
candido, fermo, inerte, cigno senza
collo capo becco ali, abbandonato, «morto» tu
ti sei preoccupata dopo un buon quarto d’ora.
Ma forse lui, lui solo, sognava ancora
di quando era stato Re, e gli Iperborei
sapienti, popolo degli iceberg e della
brughiera, la lunga fuga dall’Islanda
di Wotan, forse lui, lui solo lì quella sera
sapeva palme, canti…


[1] La poesia è eponima della raccolta I cigni selvatici a Coole, The wild swans at Coole pubblicata per la prima volta nel 1917 e poi, due anni dopo, nel 1919 riedita in un’edizione ampliata. Tra le diverse traduzioni editi in Italia, sia Roberto Sanesi (W. B. Yeats, Poesie scelte, Mondadori, 1974) che Ariodante Marianni (I cigni selvatici a Coole, BUR Rizzoli, 1989) optano per «creature splendenti» e tale sarà anche la scelta di Alessandro Gentili Cigni selvatici a Coole, Passigli, 2008.

[2] Alcuni sonetti, II, in Stéphane Mallarmè, Poésies, 1887, in Tutte le poesie, trad. M. Grillandi, Newton Compton, 1974

[3] Rainer Maria Rilke, Neue Gedichte, 1907, in Nuove poesie, trad. G. Cacciapaglia, Einaudi, 1992, rispettivamente da Il cigno e da Leda.

[4] Paul Valéry, Opere poetiche, trad. M. Pasi, Guanda, 1989.

[5] Dylan Thomas, Il mattino, spazio per Leda, in Poesie inedite, trad. A. Marianni, Einaudi, 1980.

[6] Sully Prudhomme, Le Cygne, in Les solitudes (1869).

[7] Per secoli, in Europa, si credeva che tutti i cigni fossero bianchi. L’espressione “cigno nero” era usata come sinonimo di qualcosa di impossibile o inesistente. Questa convinzione fu smentita nel 1697, quando l’esploratore olandese Willem de Vlamingh scoprì effettivamente dei cigni neri in Australia Occidentale. Il concetto del “cigno nero” (Black Swan) è, quindi, una metafora che descrive un evento imprevedibile e di grande impatto, resa popolare dal filosofo e saggista Nassim Nicholas Taleb nel suo libro omonimo.

[8] Pier Luigi Bacchini, Mappa dei voli, in Canti territoriali (2009), in Poesie 1954-2013, Mondadori, 2013.

[9] Lucrezio, De rerum natura, IV, 181-182 e 910-911, trad. Milo De Angelis,

[10] Esopo, Favole, Rizzoli, 1951. Nella favola n. 173, Il cigno preso per un’oca, il cigno si salva dalla morte – destinata all’oca – facendosi riconoscere per il suo canto.

[11] Aristotele, Historia Animalium, Libro IX, 12: «sono […] uccelli canterini e cantano, soprattutto, quando la morte si avvicina».

[12] Platone, Fedone, 84e-85b.

[13] Diverse leggende o tradizioni mitologiche o letterarie correlano il canto del cigno all’arpa. Il loro simbolismo si intreccia in vari modi, in particolare in quello del viaggio mistico verso l’altro mondo. Secondo l’etnomusicologo Mrius Schneider «L’ultimo canto che intonavano i musici e poeti moribondi era accompagnato dall’arpa e si chiamò ‘canto del cigno’», in A. Cattabiani, Volario, Mondadori, 2022, p. 138.

[14] Arturo Graf, Medusa, Loescher, 1880.

[15] Leonardo da Vinci, Bestiario, 43. Cigno.

[16] Giambattista Marino, Adone, 1623.

[17] Giovanni Pascoli, Il transito, in Primi poemetti, Zanichelli, 1904.

[18] Rainer Maria Rilke, Silenzio e tempesta. Poesie d’amore, a cura di Raffaela Fazio, Marco Saya Ed., 2019.

[19] William Butler Yeats, Leda e il cigno in La torre (1928).

[19] Dylan Thomas, op, cit.

[21] Gabriele D’Annunzio, La Leda senza cigno, apparso a puntate sul “Corriere “ nel 1913, fu pubblicato nel 1916 dall’editore Fratelli Treves (La Leda senza cigno. Racconto seguito da una licenza).

[22] Gabriele D’Annunzio, Romanza IV, in Intermezzo melico, in Isaotta Guttadauro, 1886.

[23] Eugenio Montale, Nel parco di Caserta, in Le occasioni, Einaudi, 1939, in Tutte le poesie, Mondadori, 1984.

[24] Mi pare, tuttavia, più sottile (il che con Montale è spesso la postura giusta) l’interpretazione che ne dà, ad esempio Cristiano Spila «L’idea che il componimento vuole rendere è quella di un rovesciamento dei valori classici: il cigno crudele come conseguenza della fine (il vuoto) della cultura classica. cigno crudele come conseguenza della fine (il vuoto) della cultura classica.» (Cristiano Spila, La «crudeltà» del cigno. Lettura di una lirica montaliana, in “Per leggere. I generi della lettura”, Anno X, Numero 18, 2010, Pensa MultiMedia).

[25] Grytzko Mascioni, Zoo d’amore, Book Editore, 1993.

[26] Charles Baudelaire, I fiori del male, trad. Milo De Angelis, Mondadori, 2024, p. 199.

[27] vedi, ad es.: La guerra di New York contro i cigni, Il Secolo XIX, 30 gennaio 2014.

[28] Paolo Valesio, Il volto quasi umano, Lombar Key, 2009.

[29] Fabio Pusterla, Pietra sangue, Marcos y Marcos, 1999.

[30] Giuseppe Conte, L’oceano e il ragazzo, Rizzoli, 1983.

Immagine di copertina: Cigno reale (Cygnus olor), Parco fluviale del Ticino presso Pavia, aprile 2019, foto di Alfredo Rienzi