Qual è il seme da cui è germinata la tua poesia? Quale la sua genesi nel tempo?
La mia poesia è germinata dalla prosa. E il termine “germinata” cade a proposito, perché così realmente è stato, come ho già espresso in una nota accompagnatoria del mio libro d’esordio (Il gesto è compiuto, puntoacapo Editrice, 2020) che qui parzialmente riporto:
“Come mi sia ritrovata a scrivere poesie in età matura, riprendendo una passione giovanile, è cosa – almeno per me – sorprendente. È accaduto durante la stesura di un romanzo; all’interno della prosa nascevano spontaneamente dei versi, qua e là, un po’ come accade quando si coltiva con meticolosità un orto e tra gli ortaggi spuntano dei fiori. Come naturalista mi viene da pensare che i fiori siano spesso messi a riparo delle colture e che la biodiversità debba essere sempre salvaguardata, quale bene prezioso. Come scrittrice penso la stessa cosa. Dunque ho seguito il percorso punteggiato di poesie. Ho cercato di avere uno sguardo tridimensionale, facendomi Marco Polo di un viaggio che ho intrapreso da ferma. In fondo è questo ciò di cui abbiamo bisogno: comprendere noi stessi per poi comprendere meglio tutto il resto. Ciò richiede uno sforzo, ma richiede anche l’abbandono dei sensi che normalmente utilizziamo per decifrare la realtà. La poesia è un meraviglioso mezzo percettivo per fare questo. Non solo questo.”
Ciò è avvenuto durante la stesura di un romanzo storico, alla fine di alcuni capitoli ho aggiunto delle poesie. Come se la poesia potesse – e in verità può – in pochi versi riassumere pagine e pagine di prosa. Ho avvertito un desiderio improvviso e violento di andare al punto centrale della narrazione, all’essenza. Oso fare un paragone, che a mio giudizio calza bene con ciò che esprime la metafora della montagna utilizzata nella mia ultima raccolta (Voragini d’azzurro, Interno Libri Edizioni, 2025):
affrontare la stesura di un romanzo – e in particolare la stesura di un romanzo storico – è come affrontare una spedizione alpinistica: ci si deve informare su ogni dettaglio, equipaggiare, il viaggio è lungo, richiede resistenza mentale, pianificazione, una grande capacità organizzativa, collaborazioni e molto altro. Per contro la stesura di un verso, di una poesia, equivale piuttosto a un’arrampicata in falesia o in parete, dove si rende necessario affinare la propria sensibilità, gestire uno stato continuo di allerta, di sospensione e concentrazione massima. Un solo gesto, un solo verso, può far cadere oppure può aiutare a raggiungere un livello più elevato di conoscenza. È molto appagante a livello mentale compiere|trovare il “giusto gesto|verso”. Nel 2017 l’arrampicatore ceco Adam Ondra è stato il primo al mondo a liberare (liberare una via significa effettuare la prima salita di un itinerario in libera, senza resting – riposi appesi al chiodo – né cadute) una via di grado 9c (scala francese), la Silence a Flatanger in Norvegia. Come? Provando e riprovando tutti i passaggi insistentemente, con grande passione, con una visione di percorso, un oltre a cui tendere sempre. Possono dunque la costanza, la determinazione, accostati al talento, aiutare a compiere un percorso così impegnativo? Se osserviamo Adam nelle sue ripetizioni notiamo che ha memorizzato e fissato ogni singolo passaggio della via (per i poeti per trasposizione sarebbe ogni singola sillaba, parola…), ha “lavorato” la via a livello interiore, rimanendo spesso con i piedi per terra a osservare a testa reclinata e braccia ondeggianti nel vuoto il percorso da affrontare. Vedendolo restiamo ammirati ma comprendiamo anche che la prima cosa da fare per raggiungere un obiettivo è: avere dentro di sé una visione e credere che si possa realizzare.
Gli stati mentali a cui si può avere accesso in situazioni apparentemente distanti tra loro possono assomigliarsi. Per questo, e anche perché è tema centrale della mia ultima raccolta (Voragini d’azzurro) ho azzardato questo parallelismo tra poesia e arrampicata. Ora mi allontano da queste vette di talento alpinistico. Per quanto mi riguarda, in poesia ho cercato di avvicinarmi all’esattezza con cui volevo esprimermi, ho scritto, riscritto, limato, mi sono confrontata con altri poeti/poete, ho letto e approfondito cercando via via di riuscire a esprimere al meglio ciò che volevo trasmettere. Soprattutto nell’ultima raccolta ho insistito nella ricerca di armonia tra l’aspetto grafico e il contenuto, in modo che diventassero tutt’uno. Parole precipitate verticalmente, o, al contrario, quasi morte, distese orizzontalmente. L’originalità formale cui tendo senza eccessi non è puramente una scelta estetica. Deve essermi rimasto dentro – dopo tanti anni di insegnamento di discipline scientifiche – un modo di vedere la pagina geometrico, matematico, così che a volte immagino finestre vuote in cui si muovono suoni, liberando spazi per me significativi, affacci verso le profondità. Altre volte le parole si dispongono in prosa poetica, e una in fila all’altra formano treni. La forma si fa per me sostanza e viceversa. Come se ogni poesia fosse un corpo nudo da ritrarre fotograficamente per osservarne da vicino l’espressione di vita, di sofferenza. Ed è il particolare che a mio avviso meglio la esprime. L’inquadratura che si sceglie e la voce dello scarto, il non detto. D’altra parte la matematica è un linguaggio molto creativo (contrariamente a ciò che normalmente si sarebbe portati a credere), apre al pensiero laterale, a uscire dagli schemi, a cercare soluzioni e seguire percorsi alternativi, è uno straordinario mezzo espressivo universale. Per quanto mi riguarda il percorso di acquisizione di competenze in campo poetico è ancora lungo e non finirà – la mia età non lo permette – ma rispetto al punto di partenza sono consapevole di aver compiuto passi importanti verso una direzione che sento appartenermi. Verso un vuoto che si colma.
Quali i poeti che negli anni hai sentito più affini alla tua sensibilità?
Se penso alla mia seconda raccolta (Fatti reali immaginari, Arcipelago itaca, 2022), penso al tentativo di restituire al lettore una fotografia poetica di alcuni accadimenti storici che hanno cambiato la vita di molte persone – al loro improvviso e tragico capovolgimento di destino – tentativo mediato necessariamente dall’immaginazione. In passato a tale riguardo mi è stata rivolta la domanda: ma è necessario che la poesia sia così “crudele”? Sottointendendo di certo che la mia lo fosse (almeno in questa raccolta). Rispondo con i versi di un poeta, Alessandro Celani, scomparso prematuramente: “Fatti feroce poesia / quando i tempi sono feroci / Impara dalle bestie nei campi / come uccidono e sono uccise / Impara dal tempo che viene in soccorso / a chi è già morto fra le acque / Non cedere alle lusinghe dei poeti / dicci la verità sulla morte / chi uccise e chi fu ucciso / nome per nome”. Versi senza retorica tratti da Apocalisse e altre visioni (Aguaplano, 2021). Dunque, la domanda che mi pongo è: la realtà deve essere edulcorata in poesia? Dal mio punto di vista no. Soprattutto quando i tempi si fanno bui, tempi che conosciamo bene e che ci stanno nostro malgrado in qualche modo attraversando. È possibile mitigarla, camuffarla, ma consapevolmente, come sono stati costretti a fare alcuni poeti che vivevano uno stato di vessazione da parte di regimi totalitari, per continuare a denunciare i fatti sotto altra veste. Ci sono dunque alcuni aspetti imprescindibili nella poesia che amo: che sia autentica, profonda, di scavo continuo, che non sia stucchevole, che sia – se necessario – dura, diretta, ironica, non retorica, che sia piana ma non banale, con versi spiazzanti che guardino al quotidiano ma nel contempo al mondo e ne sappiano cogliere i collegamenti, che sappia essere all’occorrenza visionaria e osi spingersi nell’invisibilità dell’oltre, unendo realtà e immaginazione in un singolare impasto. Sono dunque molti i poeti che ho sentito affini in questo senso, chi per un aspetto, chi per un altro. L’elenco sarebbe lungo e asistematico, anche perché, non avendo avuto una formazione letteraria e avendo letto perlopiù prosa nell’arco della vita, ho dovuto rimediare in breve tempo alla mancanza di approfondimento poetico con una lettura bulimica di libri di poesia. Quindi potrei indicarne alcuni a random: Arthur Rimbaud, Osip Mandelstam, Gianni Ritsos, Alejandra Pizarnik, Jorge Luis Borges, Wislawa Szymborska, Cees Noteboom, Luigi di Ruscio, Umberto Fiori… e il vecchio Ungaretti che durante le sere della mia infanzia compariva in TV, e che io puntualmente, su richiesta dei miei compagni di classe, imitavo con voce bassa e tremolante, ricurva sul banco di legno nelle prime ore del mattino.
Ti ritrovi nella riflessione, trascritta di seguito, di Giacomo Leopardi?
“Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo ch’io abbia passato in mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’io vivo. Passar le giornate senza accorgermene, parermi le ore cortissime, e maravigliarmi sovente io medesimo di tanta facilità di passarle. (Giacomo Leopardi, Zibaldone, 4417-18, 30 novembre 1828)
Mi ritrovo appieno. Quando si scrive non è infrequente calarsi totalmente in una bolla, entrare in uno stato di flow, stato di leggera trance che, andando a “disattivare” una parte di cervello, permette l’attivazione di funzioni cognitive superiori, tipico stato in cui si trova chi è totalmente concentrato sulla propria prestazione (sia essa letteraria, sportiva o meditativa). Alla luce di quanto emerso, pare che le onde cerebrali si comportino – in chiunque raggiunga lo stato di flow – in maniera analoga alle onde che i monaci buddisti riescono ad attivare durante la meditazione profonda. Raggiungere questo livello è estremamente gratificante in quanto si riesce a esprimere al massimo le proprie potenzialità. Giacomo Leopardi di certo non ne conosceva i meccanismi neurologici di attivazione ma aveva perfettamente messo a fuoco quali sensazioni inebrianti questo stato inducesse. E mi vengono in mente scrittori del passato che amavano scrivere al tavolino di un bistrò, in un ambiente rumoroso e stimolante, ma da cui si estraniavano completamente. Capacità di immergersi nel mondo e nello stesso momento di stare fuori dal mondo, perché la scrittura deve nutrirsi di realtà ma “[…] ciascuno deve / calarsi in solitaria nel proprio sentire” (da Voragini d’azzurro).
Adriana Tasin (Tione di Trento, 1959) si laurea in Scienze Naturali all’Università di Bologna e fino al 2021 insegna discipline scientifiche in Val Rendena, a Madonna di Campiglio ai piedi delle Dolomiti di Brenta, dove tuttora vive. Si dedica alla scrittura in forma poliedrica focalizzando in un secondo tempo l’attenzione sulla produzione poetica e ottenendo importanti riscontri. Nel gennaio 2020 pubblica la raccolta poetica Il gesto è compiuto, con puntoacapo Editrice; nel maggio 2022 pubblica la raccolta poetica Fatti reali immaginari, con Arcipelago itaca Edizioni, nel gennaio 2025 pubblica la raccolta poetica Voragini d’azzurro, con Interno Libri Edizioni.
Suoi testi compaiono in blog letterari (Bibbia d’Asfalto, Di sesta e settima grandezza, Tragico Alverman, Alma Poesia, Poesia del nostro tempo, Versante Ripido, larosainpiù, La dimora dello sguardo, Centro culturale Tina Modotti, Critica impura, Transiti poetici, Associazione Licenza Poetica, Le parole di Fedro, L’Estroverso, Poesia Ultracontemporanea – Critica Impura, Laboratori Poesia, Neobar, Atelier, Poeti Oggi, L’Astero Rosso, Margutte) e in giornali e riviste. Tra le numerose pubblicazioni antologiche preme segnalare in particolare la presenza di suoi testi nelle antologie: Il fiore delle lacrime, curatela di Vincenzo Guarracino, puntoacapo Editrice 2020; Distanze Obliterate, a cura di Alma Poesia, puntoacapo Editrice 2021; Singolare/molteplice, a cura di Enzo Campi ed Enea Roversi, Premio Bologna in lettere, puntoacapo Editrice; Breviario del tempo, curatela di Vincenzo Guarracino, Edizioni Di Felice 2023; I giorni invisibili, curatela di Monica Moka Zanon, Edizioni Il Babi 2023 e Distanze verticali, a cura di Irene Sabetta, Macabor Editore 2024.
Le sue poesie hanno ricevuto importanti riconoscimenti in concorsi letterari tra cui si ricordano: Bologna in Lettere (2020, 2022, 2024), Guido Gozzano (2021, 2022, 2023), Lorenzo Montano (2020, 2021, 2022, 2023, 2024), Gianmario Lucini (2022, 2023), Chiaramonte Gulfi (2020, 2021, 2024), Tra Secchia e Panaro (2021, 2024), Arcipelago itaca (2020, 2021).
Suoi testi sono stati tradotti in spagnolo, da Antonio Nazzaro, per il Centro Culturale Tina Modotti, e per le Scuole di Poesia di Cuba (in occasione della trentesima edizione del Festival Internazionale della Poesia dell’Avana).
