(con poesie di Giancarlo Consonni, Vincenzo Cardarelli, Gaetano Arcangeli, Fabio Pusterla)
Se, come visto in uno dei precedenti articoli de “La lingua degli uccelli”, “L’Allodola è la Poesia” (leggi), sua tradizionale metafora, il Gabbiano (insidiato forse solo dalla Rondine), ne è l’abitante più comune. Talmente comune che ad un certo punto ne è stato quasi bandito, figura abusata e usurata, iperpoetica. Per poi ritornarvici, impoeticamente. Ma non anticipiamo nulla.
Ri-facciamo prima conoscenza con i gabbiani della avifauna e con i gabbiani della letteratura.
Esistono nel mondo circa cinquanta specie di gabbiani, distribuiti in una decina di generi della famiglia dei Laridi, inserita nel numeroso e variegato ordine dei Caradriformi[1]. In Italia se ne possono osservare, tra nidificanti e stanziali o di passo o svernanti diverse specie (G. reale nordico, G. reale pontico, G. corso, Zafferano, Mugnaiaccio, G. roseo, G. corallino, Gabbianello…), ma in realtà sono due le specie dominanti: il Gabbiano reale “zampegialle” (Larus michahellis), il grande gabbiano delle nostre rive mediterranee, dal becco giallo con «una punta» – scrive Giancarlo Consonni – di rosso[2] e il Gabbiano comune, più piccolo e adattato ad ambienti umidi anche non rivieraschi, dal cappuccio marrone-scuro nel periodo nuziale e dal verso che risuona come una reiterata risata, dalla quale il nome scientifico ridibundus[3]. In poesia, tuttavia, come accade già per “il Falco” che nei versi indica diverse specie di rapaci diurni, anche per “il Gabbiano” delle poesie la descrizione delle differenze zoologiche non sono, salvo poche eccezioni, precisate.
Esplicito solo due tratti essenziali del loro comportamento alimentare: i gabbiani sono classificati come onnivori, sia pure con una forte componente predatoria e predilezione carnivora, e adottano condotte “cleptoparassitarie”, cioè usano depredare altri uccelli delle loro prede e dei loro bocconi. Lo descrive nei versi di un suo ampio componimento Pablo Neruda: «Corri / dietro l’ultimo / pezzo di intestino /di pesce, / becchi / i tuoi fratelli bianchi, / rubi la misera preda.[4]»
Puntualizzo, inoltre, che non c’è alcuna parentela tra Gabbiano ed Albatro, il quale non è affatto un “grande gabbiano”, bensì specie del tutto diversa e perfino di altro ordine (Procellariformi), non presente in Italia, se non eccezionalmente. Cade verosimilmente nell’equivoco Alfonso Gatto, che nella sua poesia Il gabbiano[5], che «fugge il gabbiano» dalla riva diventa, nel v. 18, «albatro fuggente».
Così come è da ritenersi tutt’altro che acclarato – e facciamo un rapido transito sulla mitologia del Gabbiano – che Alcione, la figlia di Eolo, tramutata con lo sposo Ceìce di Trachinia in un uccello (il “misterioso” l’Alcione, appunto) dall’iroso e permaloso Zeus, avesse assunto identità di gabbiano. La tassonomia sposa la tesi che gli sposi vennero tramutati in martin pescatori, chiamati anche alcioni (Alcedo Atthis), ma la questione non sembra chiarita.
«Gli antichi – scrive Alfredo Cattabiani- non furono molto colpiti da questi uccelli: Plinio il Vecchio, che li chiamava gaviae, ne accennava appena dicendo che fanno i nidi sugli scogli[6]». Il simbolismo del Gabbiano è, quindi, molto diretto: i suoi voli costieri – fino a non molti decenni orsono quasi unico linguaggio del laride – sembrano parlare all’osservatore di libertà e di spazi aperti: un invito alla distesa contemplazione del mondo dall’alto. Volare, staccarsi dai vincoli della gravità – fisica e simbolica – reso col sintagma idiomatico “spiccare il volo”, sembra attagliarsi perfettamente al senso aereo che il gabbiano – più di altre specie – trasmette. Non è un caso che il celeberrimo Jonathan Livingstone fosse un gabbiano!
E non è quindi un caso nemmeno che il volatile abbia trovato dimora in moltissime poesie, molte delle quali di tono lirico e contemplativo. Non potremo qui che riportarne alcune, attingendo alla poesia italiana moderna e contemporanea, provando a porre in luce alcune delle più significative valenze. Ma prima, solo alcuni versi di Paul Verlaine, che esprimono perfettamente la “gabbianità” in poesia: «Gabbiano dal volo malinconico / segue l’onda, il mio pensiero / […] / ebbro di sole / e di libertà / un istinto lo guida in questa immensità[7]».
Vincenzo Cardarelli, in una poesia del 1942 sottolinea, appunto, il «perpetuo volo» e la «gran quiete marina» in contrapposizione al proprio umano destino burrascoso.
Gabbiani di Vincenzo Cardarelli[8]
Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro,
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.
Il poeta, si sa – suvvia, qualche luogo comune ci può stare in un articolo su gabbiani e poesia! – più che da bonacce e tramonti sereni o di tiepida malinconia, è attratto da tempeste, onde e burrasche, smarrimenti e inabissamenti. Così Camillo Pennati appella il gabbiano «maestro di tempeste»[9] e Gaetano Arcangeli ci fornisce un esempio calzante di questo umore:
Un gabbiano di Gaetano Arcangeli[10]
Quante tempeste hai fiutate,
col tuo profilo aguzzo di gabbiano!
Ora, nella bonaccia, cerchi l’isola
di fortuna, che la marea conceda,
rifluendo, alla tua solitudine,
là dove i muti stridi
del tuo cuore ferito temprin l’aria
stupefatta e insueta…
Ancora in Fabio Pusterla il rimirare i movimenti e i voli dei laridi innesca riflessioni e trascina in alto e altrove l’osservatore:
I gabbiani del Guasco di Fabio Pusterla[11]
Verso il mare, dove qualcosa si apre, l’orizzonte.
E quanti voli, poi, per anni e secoli
dalla bava di spiaggia verso l’alto nell’attrito
del vento sulle coste
pietrose, verso il cielo: quanti voli.
In basso morivano gli uomini
tra scalini di porfido e prigioni, monologhi alla luna
l’e grida roche di pubblico impazzito,
acque di scolo merli feritoie.
Dal muro che rimase, dai fossati e dal ventre
squarciato del colle sale adesso un respiro,
un silenzio. Oltre, cantieri, fabbriche,
massi a forma di cane
imbrigliano le onde, navi salpano
o ritornano al porto, vite scorrono ignare
le vie di una città che tutto inghiotte,
corpi progetti rabbie. Nel crepuscolo
vanno però i gabbiani, ancora, inventano
con l’ala in fiamme l’ultimo lembo di luce,
così splendente, tesa, come un margine
estremo di chi guarda, una ferita.
Voli e tramonti, orizzonti e mare, navi e naviganti, ali e gridi: questo sembra essere stato il menù del gabbiano poetico. Così è in Vittorio Bodini: «volteggia / sulla nave un saluto di gabbiani[12]» e «Volavano bianchi d’ali / i gabbiani» di Giorgio Caproni[13]; nel già citato Giancarlo Consonni: «Salgono la sera i gabbiani / in moti rari[14]», «un gabbiano / è nell’ultimo sole [15]»; pur con più ricercati accostamenti anche in Camillo Pennati: «sorvola la battigia a picco / sulla vertigine prescelta[16]», «planando l’atmosfera // altissima sopra uno specchio / di mare […] sfrecciando sagomato / oltre il fondale.[17].»
«Gabbiani e tramonti – scrive Fabrizio Bregoli – sono da sempre compagni della poesia, tanto da essere nell’immaginario di molti lettori, per lo più legati a stereotipi della tradizione, elementi identificativi della poesia propriamente detta[18]». Ma poi qualcosa cambia, in parallelo o in sinergia, nel linguaggio poetico e, ancor più, nella realtà ambientale. Così accade che Valerio Magrelli, che ritroveremo nelle successive puntate, dichiari la sua «strenua battaglia contro gabbiani e tramonti[19]» e che Sergio Pasquandrea, introduca un suo testo con ironia metapoetica: «Peccato che i gabbiani siano ormai così / impronunciabili in poesia / perché questi ne meriterebbero una». Che in realtà poi dedica loro, con quei toni che avrebbe voluto, nel gioco di ruolo, evitare: «che ora si aggirano in lente ruote sul mare calmissimo / striato di celeste e di arancione / mentre il sole non è ancora sorto / e la luna si affaccia oltre le erbe ispide[20]».
E accade, questa volta dal mondo reale, dall’ambiente che muta, che – tra gli altri – Attilio Bertolucci veda per la prima volta «gabbiani sulla riva del Tevere[21]» (1971), Primo Levi li segua risalire il Po dal delta, nel tempo, «Fuggendo il mare, attratti dalla nostra abbondanza» e planare «inquieti su Settimo Torinese», dove «immemori del passato, frugano i nostri rifiuti[22]» (1979) e che Giuseppe Conte, nella meravigliosa Piazza dei gabbiani (1988) rifletta sul «freddo che ha fatto volare / i gabbiani sempre più in qua / verso la città, la piazza / centrale.[23]»
Ma queste sono altre storie, altri tempi. Altre poesie e un prossimo articolo.
[1] La famiglia dei Laridi comprende anche le sterne, mentre tra i più conosciuti rappresentanti delle altre famiglie dei Caradriformi troviamo pivieri, pavoncelle, avocette, cavalieri d’Italia, beccacce e beccacce di mare, pulcinelle di mare ecc. Si noti bene: non albatri o fregate, che appartengono a diverso Ordine (Procellariformi).
2] Giancarlo Consonni, che ha dedicato diversi brevi componimenti ai gabbiani nelle sue opere (tra cui: In breve volo, Scheiwiller, 1994; Filovia, Einaudi, 2016; Pinoli, Einaudi, 2021) in Filovia, ci porge, con lo scarno titolo Gabbiano, un sintetico ed efficacissimo ritratto: «Il bianco e il grigio e il nero. / E il rosso / una punta / sul becco giallo.»
[3] In passato era classificato all’interno del genere Larus, ma recenti revisioni tassonomiche hanno portato alla creazione del genere Chroicocephalus, nel quale è attualmente inserito.
[4] Pablo Neruda, Gabbiano, in Bestiario, a cura di G. Bellini, Passigli, 2006, pp. 72-73.
[5] Alfonso Gatto, Il gabbiano, in Poesie d’amore – Seconda parte 1962-1972, Mondadori, 1973.
[6] Alfredo Cattabiani, Volario, Mondadori, 2022, p. 206.
[7] Paul Verlaine, IV, 7 in Saggezza, trad. F. Valsecchi, Sonzogno, 1914, p. 76.
[8] Vincenzo Cardarelli, Poesie, Mondadori, 1942, Oscar Mondadori, 1966, p. 84.
[9] Camillo Pennati, Gabbiano, in Il dentro dell’immagine, in Una distanza inseparabile, Einaudi, 1998.
[10] Gaetano Arcangeli, Solo se ombra, in Le poesie, Lo Specchio Mondadori, p. 72.
11] Fabio Pusterla, in Corpo stellare, Marcos y Marcos, 2010.
[12] Vittorio Bodini, Il gatto eunuco in Tutte le poesie, a cura di O. Macrì, Besamuci editore, p. 215.
[13] Giorgio Caproni, Chi ha paura di uscire?, in Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, Garzanti, Ed. 2020, p. 201.
[14] Giancarlo Consonni, Si distende il mare, in In breve volo, cit..
[15] Ivi.
[16] Camillo Pennati, cit..
[17] Camillo Pennati, Gabbiano in Modulato silenzio, Joker, 2007.
[18] Fabrizio Bregoli, Poesia a confronto: Gabbiani, Laboratori Poesia, 19 maggio 2020, u.c. 8 aprile. 2025.
[19] Antonio Gnoli, “Valerio Magrelli. La poesia va liberata da gabbiani e tramonti”, “La Repubblica”, 13 agosto 2022, p. 34.
[20] Sergio Pasquandrea, Seangánach(Shanganagh) -2 in Lunario, Arcipelago itaca, 2023, p. 39.
[21] Attilio Bertolucci, I gabbiani da Viaggio d’inverno, Garzanti, 1971.
[22] Primo Levi, I gabbiani di Settimo, da Ad ora incerta, Garzanti, 1984, già su “La Stampa” del 17 luglio 1979
[23] Giuseppe Conte, Piazza dei gabbiani, da Le stagioni, Rizzoli, 1988 in G. Conte, Poesie 1983-2015, Mondadori, 2015, p. 95.
Immagine di copertina: Gabbiano comune in volo (Chroicocephalus ridibundus) | fotografia di Alfredo Rienzi, 2020

Una replica a “La lingua degli uccelli (XXI) – Il Gabbiano. / Parte prima: voli e tramonti”
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