La lingua degli uccelli (XX)- Aironi e ardeidi / Parte Seconda

Autore/a cura di:

con poesie di Sergio Gallo, Federico Italiano, Giancarlo Baroni e versi di Oscar Wilde

Nel precedente articolo abbiamo condotto una prima esplorazione della poesia dedicata agli “aironidi”, termine improprio che utilizzo per indubbia espressività, riscontrando come l’”airone” in poesia sia quasi sinonimo di Airone cenerino (Ardea cinerea), mentre delle altre due specie cugine italiane – i più rari Airone bianco maggiore (Ardea alba) e Airone rosso (Ardea purpurea) – non vi è praticamente traccia nelle poesie italiane moderne e contemporanea.

Vi è nella penisola italiana ancora un terzo Airone, sia pure di altro genere tassonomico: l’Airone guardabuoi (Bubulcus ibis). Originario dell’Africa e dell’Asia, nell’ultimo mezzo secolo ha ampliato il suo areale alle Americhe e all’Europa meridionale, dove la presenza è regolare solo dagli anni Ottanta. Infatti, la prima nidificazione documentata in Italia è avvenuta in Sardegna nel 1985, seguita da altre in Piemonte (1989) e poi in altre regioni. La specie è in aumento ed anche il numero delle mie osservazioni, la prima delle quali, nelle risaie del Vercellese, risale a meno di dieci anni fa. Recentemente è frequente anche nelle aree e nei parchi fluviali intraurbani.
Non stupisce che una attenta sentinella poetico-naturalistica, come Sergio Gallo, che è necessario citare ancora, gli abbia recentemente dedicato un efficace e puntuale ritratto:

Il ritorno dei guardabuoi di Sergio Gallo[1]

Si tengono a distanza guardabuoi
sull’ultimo lembo di prato,
tozzi indagatori dall’abito bianco.
Pacificamente pascolano
in cerca di invertebrati,
meticolosamente battendo
la coltre erbosa rigogliosa
nonostante l’autunno inoltrato.

Eleganti nel volo come altri aironi,
ma più agile danzare tra le zampe
di ruminanti bovini al pascolo
alternando lenti spostamenti
a brevi corse o come sentinelle
in equilibrio lungo i dorsi
di greggi e mandrie
per un ripulisti di parassiti.

Insieme a gabbiani ed altri uccelli
al seguito di trattori
dopo arature, sarchiature
dare la caccia ad arvicole
e succulenti lombrichi.
Tra cespugli di salici, canneti
con garzette e altri ardeidi
in gazzarre di garzaie

nidificare. Sebbene protetti
alle carabine dei bracconieri
non è detto riescano a sfuggire.

In tempi come questi
occorre essere invisibili
per poter sopravvivere.


Ci consente, questa poesia, di dare per compiutamente svolto il còmpito della descrizione anatomo-comportamentale, aggiungendo soltanto una nota descrittiva (il piumaggio bianco si screzia di aree arancioni specie sul capo durante la stagione riproduttiva) e una dal tono raffigurativo – comportamentale: le prime immagini del guardabuoi (come fa Gallo, giustamente è denominabile anche solo così), almeno agli osservatori un po’ âgée, sono state quelle dell’uccello appollaiato sul dorso – o girovago tra le zampe – di bufali, antilopi, elefanti nella classica documentaristica sulla vita selvaggia dell’Africa. Così avviene anche qui in Europa, ma il bianco ardeide è in realtà adattabile anche ad altri scenari di caccia alimentare («al seguito dei trattori/ dopo arature») al di là dei parassiti dei simbiotici “buoi”. Questa immagine icastica ci rende però ragione anche di come poco o nulla, nella tradizione italica – simbolica, artistica e letteraria – si possa trovare a riguardo di un ospite giunto da poco dalle nostre parti. Inoltre, ancor meno dell’”Airone”, che nominato senza ulteriori specifiche, indica l’Airone bianco maggiore e che comunque ha qualche attributo mitologico e simbolico legato alla vigilanza, sapienza, alla contemplazione, allo sviluppo interiore[2], e che sarebbe all’origine del mito della Fenice, gli altri Ardeidi non hanno particolari attributi nella mitologia, nei bestiari, nella simbologia e nel folklore, ad eccezione forse del Tarabuso per il suo caratteristico verso, come dirò più avanti.

Ma, qualche poeta ha incontrato e condotto nei propri versi qualcuno degli altri Ardeidi presenti in Italia (Garzetta, Nitticora, Sgarza ciuffetto, Tarabuso e Tarabusino)? Riscontro pochi campionamenti, ma interessanti.

Tra gli altri trampolieri della famiglia la Garzetta (Egretta garzetta, non è raro che la si chiami ancora Egretta o Sgarzetta) possiede una bianchissima grazia, estetica ed evocativa, che ne ha favorito l’essere ritratta dai poeti o destinataria di versi. Somiglia, in piccolo, all’Airone bianco maggiore – inevitabile ossimoro – ma se ne distingue per il becco nero anziché giallo, che la differenzia anche dal Guardabuoi, simile per dimensioni, ma più tozzo e con il collo più breve. Caratteristico è, in periodo nuziale, il lungo pennacchio di piume nucale (che da ragazzo me ne faceva confondere il nome con la Sgarza ciuffetto, che è tutt’altra specie, seppure della stessa famiglia). La bellezza del suo piumaggio è stato un fattore quasi esiziale per molti uccelli e per le garzette in particolare: in epoca vittoriana la moda dei cappellini decorati con le loro piume vistose, causò una vera e propria strage di aironi bianchi maggiori, che divennero rarissimi alla metà del millennio passato, e di garzette[3].
Attualmente l’Egretta garzetta in Italia e in Europa non è specie a rischio e frequenta ambienti umidi, acquitrinosi, sponde di fiumi, laghi e stagni. Non è difficile avvistarla anche nei fiumi intraurbani dell’area torinese e nelle risaie piemontesi, area eccellente per le osservazioni di molte specie aviarie, Ardeidi in primis.

Federico Italiano, novarese, in una sequenza – Corpo d’acqua – della sua raccolta Habitat (Eliot, 2020) ci conduce a fare un giro tra le risaie della sua terra e a incontrarne gli abitanti alati: «garzette bianche dal becco nero» e «con ali candide», «con il collo che forma/ una Z», ritratte anche in «colonia»; le pavoncelle dal lungo ciuffo; «l’airone cinerino, maestoso,/ altèro» (con l’interessante «allora» che ne testimonierebbe il recente incremento):

Corpo d’acqua di Federico Italiano[4]

I. L’estensione del riso

Tra le camere di risaia, quando
l’estensione del riso
a fine luglio pare di smeraldo,

le garzette bianche dal becco nero
ripongono la solita, inevasa
domanda a chi le guarda dal treno,

a chi è stato assente una settimana,
poche ore o tutta una vita, e confonde
ciò che sorge con ciò che plana

– mentre con ali candide,
procedono da un argine
all’altro, sopra le loro tenute

d’acqua dolce, con il collo che forma
una Z, il capo retratto nelle spalle,
punto interrogativo sullo schermo

del crepuscolo –: tu, dove stai andando,
ora che brucia pure l’ultima
robinia, ora che tutto si consuma?


II. Il retino

Andavamo a caccia di rane
nel labirinto degli argini,
col ronzio dell’autostrada per bussola.

Un retino da pesca in una mano
e nell’altra una torcia
elettrica, puntata sui margini

della risaia, vicino alla strada,
alla bocchetta a valle, dove l’acqua
di una camera defluisce nell’altra.

D’un tratto, le vedevi saltar fuori,
gracidanti, a decine,
inconsapevoli, inebriate

dalla luce che entrava nelle tenebre
verdi dei culmi, dentro i neri
nugoli di zanzare.

A volte, sulla riva dirimpetto,
si scorgeva la snella
silhouette d’una egretta garzetta

il lungo ciuffo di una pavoncella,
o il frac di una nitticora.
Più raro era imbattersi allora

nell’airone cinerino, maestoso,
altèro, col becco sempre rivolto
al di là del tuo mondo, forse

sdegnato dal fango sulle tue mani,
dalle ginocchia rosse, dalla gomma
degli stivali e dai pomfi dei tafani

che si gonfiavano come bubboni
finché tiravi su il retino, colmo
di agitazione verde – e per un attimo

speravi ti guardasse da pari
a pari, da cacciatore a cacciatore,
ma lui era già in volo, silenzioso,

nell’ultimo bagliore
del giorno, verso i tributi di un altro
corpo d’acqua, di un altro regno sommerso.


III. Garzette

Mattino chiaro, azzurro, atletico
nelle distese smeraldo
del loro regno acquatico.

Ci scortava una flotta
di libellule, elicotteri in miniatura
quando due leprotti

sbucarono dall’ultimo campo
di granturco, in missione segreta
tra gramigna e sambuco

tra i canneti e le felci,
lungo gli argini erbosi
di risaia. Dal palo della luce

un nibbio si fiondò
dietro loro e con ali che parevano
scandire un uffa

un’intera colonia di garzette
cambiò lato dell’acqua
volando poco sopra le nostre teste.


Compare anche, nel secondo testo, Il retino, l’efficacissimo «frac di una nitticora», che descrive perfettamente la livrea dal dorso grigio scuro e dal petto bianco. La Nitticora (Nycticorax nycticorax) ha un aspetto meno aironiforme, più compatto con zampe e collo corti. È una specie in contrazione numerica – in Europa e in Italia – sia per la riduzione degli areali, che per la disponibilità relativamente limitata di siti idonei all’insediamento di garzaie e per le modifiche delle coltivazioni “a risparmio idrico” delle risaie, habitat tra i principali per l’uccello.
Tra i versi dei poeti la sua presenza è rara e non mi sono note (così come per la Sgarza ciuffetto, Ardeola ralloides) altre citazioni significative nella poesia italiana moderna e contemporanea. Ne lasciano isolate tracce, oltreconfine, la poetessa statunitense Mary Oliver (1935-2019) osservatrice del mondo naturale, specie di quello delle paludi vicino a casa sua a Provincetown, nella costa nordorientale degli States[5]. In inglese la specie, attiva anche di notte, è chiamata night airon, come precisa M. Petazzini nel dettagliatissimo La poesia degli animali (Luca Sossella Editore, 2024, p. 94) e, infatti, è notturno il «il grido della nitticora» nell’haiku di Matsuo Bashō[6].

Anche per il tarabusino (Ixobrychus minutus) e per il tarabuso (Botaurus stellaris) sarebbe il deserto, in poesia, se non fosse per il dedito Giancarlo Baroni che ritrae, con la consueta essenziale efficacia, il più piccolo dei due, nel mimetico essere ed atteggiarsi: 

Tarabusino di Giancarlo Baroni[7]

Sembro il legno
di un canneto. Nel pericolo
il collo come un palo il becco eretto
fingo di non esistere.

Infatti, l’uccello, il più piccolo ardeide europeo, possiede nelle femmine un piumaggio perfetto per mimetizzarsi nella vegetazione palustre: bianco con pezzature marroni-cannella sul ventre, più bruno e scuro nel dorso e fino al capo. I maschi virano sul ventre bianco e dorso nerastro, somigliando in questo alla Nitticora. Avvistarlo può quindi risultare difficile, anche perché – troppo frequente e triste canzone – la specie in Italia è vulnerabile e in calo, nonché in stato di conservazione cattivo, causa la contrazione di areale e di popolazione nonché per il degrado e la riduzione del suo habitat ottimale.  È quindi più facile localizzarlo per il suo canto, che assomiglia a un gracidio profondo o all’abbaiare di un cagnolino, in questo differenziandosi – come vedremo – oltre che per le dimensioni, dal suo parente più grande (fino a 70-80 cm di lunghezza!): il Tarabuso. Con il quale condivide quasi tutto il resto, compresa la modalità di risposta alle minacce, con l’assunzione di una tipica posizione eretta, il collo e il becco tesi verso l’alto, a rendersi simile a una canna di palude («Nel pericolo/ il collo come un palo il becco eretto»). Infatti, scrive Oscar Wilde: «Where the gaunt bittern stalks among the reeds/ And flaps his wings, and stretches back his neck,//And hoots to see the moon»; nelle traduzioni disponibili il verso «hoots» (grida, fischia) viene tradotto con «schiamazza» o «strepita»[8], mentre parrebbe essere più appropriato riferirsi al verso della civetta, laddove “hoot” ne definisce il suono profondo e risonante. Si potrebbe proporre un “risuona” o, con specifica conoscenza ornitologica, finanche un “muggisce”, quantunque decisamente – nel contesto – antipoetico! Infatti il canto del Tarabuso è peculiare e in qualche modo connota la specie, anche nell’immaginario e nel folklore. Infatti ciò che in fisiologia viene descritto come booming, ovvero una vocalizzazione a bocca chiusa generata dal flusso d’aria che passa per i sacchi aeriferi, è, in più comprensibili parole, un canto inconfondibile, simile a un muggito – notturno o aurorale – udibile anche a distanza di chilometri. E non sorprende, ahinoi, che nella tradizione popolare, come per altri uccelli dal canto notturno (civetta, gufo, assiolo) e in questo caso oltretutto cupo, sia considerato uccello di malaugurio, demoniaco o portatore di morte. Ma a ben vedere – e non ci vuole neanche una visita molto acuta – è molto più portatore di morte l’uomo per il tarabuso che non questi per l’uomo!


[1] Sergio Gallo, Corvi con la museruola, LietoColle, 2020, p. 44.

[2] cfr. Alfredo Cattabiani, Volario, Mondadori, 2022, p. 187.

[3] Claudia Melucci, “La folle moda vittoriana che portò ad una strage di uccelli in tutto il mondo”, Curioctopus online, 27 settembre 2017.

[4] Federico Italiano, Habitat, Eliot, 2020.

[5] «Alcune nitticore/ stavano pescando/ in abiti/ notturni» è l’incipit della poesia “Nitticore” in Egrette bianche, trad. it. M. Campagnoli, Adelphi, 2015.

[6] Matsuo Bashō, , in AA.VV., Il muschio e la rugiada, trad. it. M. Riccò e P. Lagazzi. Rizzoli, 1996.

[7] Giancarlo Baroni, I merli del giardino di San Paolo e altri uccelli, Grafiche STEP, 2016, p. 37.

[8] Oscar Wilde, Humanidad, in Poems, 1881; Oscar Wilde, Poesie, a cura di S. Mondardini, trad. it. di C. Izzo e V. Vetri, Liberamente Ed., 2019, p. 129: «…e dove il tarabuso tra le canne// Dagli acquitrini avanza e batte l’ala e allunga il collo/ E strepita alla luna».

Fotografia in copertina: Airone guardabuoi, Parco del Meisino Torino / Garzetta, Rive del Po a S. Mauro Torinese / Airone guardabuoi, Parco della Confluenza Torino / Nitticora, aree risicole del vercellese. Foto di Alfredo Rienzi 2020/2023 ©