Giuseppe Todisco, Cafarnao (AnimaMundi 2024, prefazione di Alfonso Guida, postfazione di Sergio Bertolino)
Quando volersi bene è un albero
o il tramestio di foglie per strada,
sperando che Iddio ci guardi
dal ramo che sporge in casa.
Brina con noi la linfa
come la schiera di gemme
nel freddo del primo mattino.
Spesso veniva l’angelo alla cervice
stretta del bulbo: «Tu non avrai
pianta – diceva – ma cava la vita
nel fusto».
*
Rendi al cielo ciò che del cielo già sarebbe
parte se solo tu dormissi: echi di risate,
prati verdi e colchici. O quando porti
nuvole alla bocca e ne fai voto, si stacca
dall’azzurro un nodo e torna l’ape al bugno
col suo ronzo.
Alzati Talita, dal fragile
piovischio fino al rompere del tuono.
Tutto sopra di te si dispone. Così può anche
la lucciola cedere il suo quarto di luce buona
al sorgere del sole.
*
Ripensavo all’idea di tenere dei platani
in giardino – metti che viene giù
qualcosa e non ce ne accorgiamo.
Gira la terra e mi giro dall’altra parte
solo per restare fermo e con un giorno
di ritardo chiederti se c’è speranza
di giungere a domani.
Io per sempre, tu per quelle rose
e il quesito si sposta dal tempo
allo spazio che occupiamo.
Però mia madre ha uno strano modo
di fare figli, non mi fa sentire
il salto da un destino all’altro.
Ecco, proprio ai platani pensavo – come se
bastasse un punto per capire dove siamo.
Lo sanno gli alberi che ci vuole
almeno un’ombra, perché la luce esiste
solo quando incontra i rami
*
Te ne vai col sole oltre la casa
rotta, dove il bene di cui parli
è il nome rimasto sulla porta.
Amarsi conta pure questo iato
e mentre il giorno insiste, un’ombra
dentro l’ombra scende quasi fosse
un grido nella stanza vuota.
L’assoluto di una distanza tace quando la parola si immerge nel chiarore dell’aurora con il respiro di una orazione che trema di vita nella lettura di una profonda frattura dalla quale custodirsi aprendo le braccia chiamate in offerta dal volo di una lucciola sulla matrice di un abbaglio a specifica intenzione di cedere il suo quarto di luce buona / al sorgere del sole. Esistere umana fragilità per rivelarsi nell’amore, abbandonarsi all’opacità di una cavità d’ombra, un grido nella stanza vuota, per trovarsi nel precipizio di una dualità che insinua il bagliore per declinazione terrena. Eppure, sulla bocca è assioma il primo richiamo alla occorrenza del divino che tutti ci riconosce frammento di una stessa eternità. Giuseppe Todisco percorre, noi con lui, il luogo della contemplazione dove il volersi bene è un albero o il tramestio di foglie per strada, ne avverte l’innocenza che scioglie dalla caduta fino alla piena fioritura dello sguardo in Dio atteso dal ramo che sporge in casa per nominarlo al silenzio, indiviso silenzio dell’ascolto per tramite del linguaggio, espressione ontologica dell’insondabile quale proposito di condurre il limite sulla rivelazione in tensione verso l’inviolabilità di una preghiera. Cafarnao ha principio nella creazione mistica di uno spazio che valica le sue coordinate temporali per intendersi parte di un tutt’uno che si espande per accogliere la grazia di un bulbo dettato dall’angelo nel freddo di un mattino reso promessa per appartenenza all’Altro, al cielo che sopra di te si dispone.
Giuseppe Todisco (Foggia, 1980) è cofondatore e codirettore della rivista di poesia «Avamposto». Ha esordito nel 2020 con la raccolta di versi Si prega girati di schiena (Marco Saya). Alcuni suoi testi sono stati pubblicati nella raccolta I cieli della preistoria. Antologia della nuovissima poesia pugliese (Marco Saya, 2022). Questo è il suo secondo libro.
Fotografia in copertina di Manuela Dimartino
