con poesie di Fernando Bandini, Salvatore Toma, Enrico De Lea e Federico Italiano
Nella Parte prima l’osservazione degli uccelli (sintagma misteriosamente meno utilizzato dell’omologo anglofono a tutti noto), e dei falchi, in particolare, è stata per così dire “generica”, descrivendo di fatto un uccello che “non esiste”, cioè “il falco” sine specie.
In questa Parte seconda ci aggireremo tra i versi che riguardano determinate specie di falchi e aggiungeremo una breve ricognizione tra i “non falchi” che, pur indossandone il nome, sono in realtà parenti delle aquile.
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Fernando Bandini, invece descrive proprio, sotto l’occhio bifronte di Giano, il Falco pellegrino “comune” (Falco peregrinus), il falcone per eccellenza della falconeria, il falco per antonomasia nei cieli italiani, presente anche in alcune città, nidificante negli edifici più alti, come, per esempio, nella Mole Antonelliana a Torino, dove ha nidificato anche su una ciminiera del quartiere semicentrale di Santa Rita. Con la sua proverbiale picchiata fino a 350 km orari piomba sulle prede (preferisce piccioni e columbidi) e con la “stoccata”, un colpo sferrato con entrambi gli artigli, tramortisce o ferire la preda, che cade a terra, dove viene uccisa con il potente becco.
Giano bifronte, di Fernando Bandini[1]
Lui non ha mai diviso
presente da passato.
Perché dietro il suo viso
non c’è nuca ma un altro viso ancora.
Segue senza girarsi il lungo volo
del falco pellegrino dall’aurora
fino al ponente che si oscura, dove
farà il suo nido
in dirupi o su rocche.
Non esiste per lui scoscendimento
fra il prima e il dopo, gli esce da due bocche
un solo occhiuto grido.
Questa poesia mi consente di ricordare che i falchi, a differenza delle aquile e degli altri Accipitridi, non costruiscono nidi, ma depongono e covano le uova nei vecchi nidi di altri uccelli, all’interno di alberi cavi, su spuntoni rocciosi, oppure in avvallamenti che scavano nel terreno.
Salvatore Toma, incontra un’altra specie, il Falco lanario o semplicemente Lanario (Falco biarmicus), più piccolo e meno veloce del Pellegrino (raggiunge in picchiata “solo 300 km orari!) È specie minacciata, che predilige spazi aperti, pietraie, zone semidesertiche, presente in Italia dagli Appennini toscoemiliani.
Il falco lanario di Salvatore Toma[2]
Come un aereo solare
senza rumore
se non fra le ali
il canto di un vento luminoso
circondava il lanario
il vecchio casolare
desolato in collina
tra le spine e i papaveri.
Assorto
stavo lì a guardarlo
roteare a spirale
lento come sospeso
a caccia del rondone.
Si spostava
ogni tanto
anche più di là
fra gli ulivi e il raro verde.
Un silenzio di fiaba,
avvolgeva la collina.
Il Gheppio (Falco tinnunculus), è il rapace diurno più diffuso e spesso più abbondante nel Paleartico occidentale e in tutto il territorio italiano grazie alla sua adattabilità ambientale, nidificando spesso in nidi abbandonati di altri uccelli urbanizzati, come gazze e cornacchie, e in grandi varietà di edifici ed è molto citato nella poesia italiana moderna e contemporanea[3] anche en passant, secondo me forse pure per un fattore fonetico-lessicale (bel più facile inserire “gheppio” che “falco pecchiaiolo”, in un verso, se si cerca solo una qualche suggestione metaforica).
Così in Pietro Romano (Feriti dall’acqua, peQuod, 2022) si può «ancora/ sentire il gheppio che svola scoprendo,/ prima e dopo lo sparo, /l’urlo dentro la nebbia» (Acque di confine, VIII); in Valentina Demuro (Che i fichi nascano rossi, Italic peQuod, 2024) «Il gheppio ha nella gola/ un cielo di acciaio e amaranto» e, per concludere questa breve rassegna contemporaneissima e acustica, nel Poema dal limite del mondo (Kolibris, 2019) Francesco Benozzo «il gheppio ha smesso di gridare».
Ricca di valenze simboliche, sacrali e paniche la raccolta Cacciavento (Anterem, 2023) del messinese Enrico De Lea, è dedicata e nutrita dalla presenza del rapace, chiamato col suo nome dialettale cacciaventu [4] stretto parente etimologico del Windhover di Gerard Manley Hopkins che, richiamato in esergo da De Lea, cantava il cacciavento come«il servitore del mattino, il delfino/ del regno / della luce». Molti i passaggi intensi in questa bella opera; ne riporto alcuni:
da Cacciavento, di Enrico De Lea [5]
*
A nera salvazione, a predazione alcuna
nel peso della luce si sfilano nel volo i cacciaventi
versi nella scostanza, nella dolenza, nella cruna
del campo solo, della vegetazione di più genti.
*
Giorni-corpi saldi, soldati combattenti
In fila a turno ciascuno all’arma bianca,
Neonate anime-agnelle, prede ai cacciaventi
Nel volo eterno, nel giro che non stanca.
*
Sempre nell’aria delle ali
ampie al paesaggio, gonfie, piene
ha il cacciavento retaggi
del padre e della madre, e sono il tre,
ché in sé un olimpo più alto contiene.
Più efficacemente descrittiva, ma non scevra di un segreto dialogo tra l’uccello dello Spirito Santo e dallo «sguardo tenaglia» e il noi poetico, è la poesia:
Il gheppio di Federico Italiano[6]
Molto non ci rimane
di questo pomeriggio
che arrossisce in distanza infiorescenze,
ma ci fissa – sembra sfidarci – un gheppio
sopra il cavo dell’elettricità
che divide la radura
in cima alla collina
tra un qui-ed-ora e aldilà.
Ci crede forse i suoi avversari
si chiede se anche a noi
interessino le lucertole,
le lepri fulmine o gli esseri
sotterranei, i lombrichi
la talpa, o se preferiamo le allodole
intontite da mille moscerini,
o i bombi lenti tra i denti di leone
se anche noi, come lui, abbiamo un debole
per il topo, appena scampato al gatto,
appena uscito di casa, che ancora
profuma di formaggi e di moquette.
O forse spazientito semplicemente osserva
la strana tecnica di caccia
del nostro piccolo aquilone,
come goffo atterra, s’alza e volteggia –
lui, maestro ineguagliabile
dello Spirito Santo,
il volo in stallo,
che esegue controvento
o sbattendo veloce le ali,
con la coda ventaglio, librandosi a mezz’aria,
rintracciando tra l’erba ciò che vuole,
col suo sguardo-tenaglia,
in mente solo il bersaglio,
un punto o una linea in campo verde,
la ragione del volo,
la fine dello stallo.
[1] Fernando Bandini, Santi di dicembre, Garzanti, 1994.
[2] Salvatore Toma, Ancora un anno, Capone, 1981, in Salvatore Toma. Poesie (1970-1983) a cura di L. Pagano, Musicaos, 2020.
[3] Mi perdonino, se sono collocati solamente nel cantuccio di questa nota, i grandi Giacomo Leopardi (Sonetto IV, nei Sonetti in persona di ser Pecora fiorentino beccaio, editi per la prima volta nel 1826 all’interno del volumetto Versi del conte Giacomo Leopardi, Bologna, Stamperia delle Muse, pp. 35-42, scritti in difesa dell’amico Pietro Giordani e di Vincenzo Monti) ed Eugenio Montale, che incipita con « L’ombra crociata del gheppio pare ignota/ ai giovinetti arbusti quando rade fugace» la poesia L’estate (Occasioni, 1939) il cui verso di chiusura è uno dei più memorabili del primo Novecento: «Occorrono troppe vite per farne una.»
[4] Chiamato anche, nei dialetti calabro-lucani, cerniventu, criviedda, tistaredda, sicarru, cuccareddu, cazzicavèntulu o cristaredda: Albino Pierro, materano, lo chiama ‘A cristarelle, in una lirica così intitolata in ‘A terra d’u ricorde, Il Nuovo Belli, 1960.
[5] Enrico De Lea, Cacciavento, Anterem, 2023
[6] Federico Italiano, La grande nevicata, Donzelli, 2023.
Fotografia in copertina: Gheppio (Falcus tinnunculus) nella posa dello “spirito santo”, da AA.VV., Guida all’identificazione dei rapaci europei in volo, Zanichelli, 1985, tav. 82 (J.B. e S. Bottomley).
