Ciao Sergio, ci siamo conosciuti attraverso un libro e ogni volta che ci si vede si mangia insieme e alla fine si finisce sempre a parlare delle nostre letture. Ti chiedo cosa stai leggendo, ma anche come lo stai leggendo. Il libro che ci ha fatti incontrare è stato l’ultimo scritto da un uomo che ha in qualche modo insegnato un approccio al silenzio diverso, sviluppando il pensare intorno a quel concetto e a quello del tempo. Ecco, credo che dopo la frequentazione di persone capaci di incendiare le menti, anche il modo di leggere cambi, quindi cosa stai leggendo?
Ciao Cristina, in questo momento sto leggendo soprattutto le Enneadi di Plotino, filosofo greco del III secolo che ha rappresentato la mia più importante scoperta estiva. Non l’unica, ma la più importante sì.
Quasi tutti, da sempre, abbiamo sottovalutato Plotino, non accordandogli l’autonomia speculativa che gli spetta (e basti solo il fondamentale concetto di “Uno”), considerandolo all’ombra di Platone e di un certo pensiero cristiano, che a lui si è ampiamente rifatto. Una miopia che sto cercando di curare.
In contemporanea leggo Baudelaire e l’esperienza dell’abisso di Benjamin Fondane (poeta e filosofo, altra meravigliosa scoperta) e, come al solito, parecchi versi, specie di Calogero e Bonnefoy, autori che sto ristudiando con passione.
Sei un uomo che abita le proprie contraddizioni e passioni e non ha paura di battersi corpo a corpo con la scrittura, propria e di altri. Ho sempre trovato interessante il tuo modo di porti nella ricerca, attraverso la lettura profonda delle opere. Questo vuol anche dire selezionare molto ciò che si acquista. Quali sono i tuoi criteri? E quanto sono influenzati anche nel tuo vivere tra nord (gli studi e il lavoro) e sud (le radici e la lingua madre)?
Lingua madre è il titolo di uno splendido libro – che consiglio – di Emilio Rentocchini, un’ampia raccolta di freschissime ottave, sia in italiano che in dialetto sassolese, pubblicata da Quodlibet nella collana bilingue “Ardilut” a cura di Giorgio Agamben.
Come sai, attualmente il bilinguismo è uno dei miei temi centrali: credo che le passioni e le contraddizioni di cui parli, persino quella tra nord e sud (ammesso che sia una contraddizione e non lo è: è una condizione abbastanza comune, una sorta di griffe – un po’ malinconica – del calabrese), si possano interpretare nell’ottica di questo bipolarismo di fondo, che può anche definirsi “esistenziale”.
A ogni modo, non penso che tutto ciò influenzi troppo le mie scelte in fatto di libri. Leggere per me è muoversi verso l’interno, verso l’archè. Lì la strada è diversa e l’involontarietà la fa da padrona: si è preda di scatti, desideri fulminei, pulsioni, ossessioni, si gettano ponti, mentre il quadro si fa più grande e affascinante. Non mi sembra di avere criteri meno nebulosi, sono sempre stato un lettore piuttosto anarchico (sebbene da ragazzino fossi metodico). Il mondo-fuori lo vivo spesso come una realtà (una verità) parallela, ma la prospettiva sta cambiando, e anche qui c’entra Plotino.
Le persone che si occupano di poesia e filosofia, ma anche gruppi di lavoro come la rivista «Avamposto», solitamente oltre alle nuove scoperte hanno necessità di tornare a delle zone di comfort, ad atmosfere o autori che li hanno formati o con i quali sono cresciuti, talvolta scontrati. Ecco, tu torni a rileggere libri specifici? E se si, quando e quanto spesso?
Non le chiamerei “zone di comfort” perché in un libro, pure conosciuto, cerco sempre l’urto, il sommovimento, sia la lotta che l’amore: la massima ambizione è quella di vivere bellissimi disagi.
Tu conosci il mio rapporto con i classici, che riprendo spesso e volentieri. Ci sono autori che in effetti non ho mai smesso di studiare, e sono molti e non faccio classifiche. Posso citare i primi nomi che mi vengono in mente: Leopardi, Baudelaire, Celan, Keats, Rilke, Luzi, García Lorca, Pascoli, Mandel’štam, Thomas, Hölderlin, Stevens… E potrei proseguire a lungo. A seconda del periodo, una di quelle voci torna a parlarmi, la ruota non la smette di girare e le voci si affollano.
È chiaro che nel mio mondo non esiste solo la poesia; amo rileggere saggistica (specie filosofica e letteraria), testi religiosi (non solo occidentali) e narrativa, ma preferisco evitare un’altra sfilza di nomi. Uno però devo farlo: quello di Aldo Giorgio Gargani. La sua Seconda nascita (Moretti & Vitali, 2010) – trittico di opere che si colloca tra letteratura e saggio filosofico – è stata un po’ anche la mia. È in parte merito di Gargani, che ha riattivato il meccanismo, se ho scritto molto in questi ultimi mesi. Il libro ce l’hai, te ne ho letto un passo durante una telefonata e hai voluto subito comprarlo. Direi di salutarci così: «Noi scriviamo per nostro padre perché raccontiamo di aver visto cose orrende, invincibili e insuperabili […] che quella storia non è ancora finita e che noi addirittura non facciamo altro che scriverla e riscriverla senza fine, che non possiamo fare altro che raccontarla, che non abbiamo altro, che è diventata tutta la nostra esistenza, che noi ci siamo trasformati da quello che eravamo, qualunque cosa eravamo, negli specialisti di questa esistenza che è una spoliazione, e che ora lo sappiamo anche noi insieme a lui, per lui, anche noi, che siamo diventati figli di un padre che è divenuto nostro figlio, che ora lo sappiamo anche noi, che era vero, ma non era vero; che è vero, ma non è vero».
Immagine in copertina a cura di Cristina Daglio
