Il termine profano etimologicamente deriva da fanum (tempio, luogo sacro) che, con il prefisso pro, assume il significato di persona o cosa che sta fuori dal tempio, o recinto sacro che sia. Nel corso dei secoli, però, come avviene per le naturali modificazioni della lingua, esso ha esteso il proprio ambito semantico ad “empio, sacrilego, peccaminoso”, comunque estraneo all’ambito religioso. “Non mescoliamo il sacro con il profano” diciamo talvolta debordando dal significato originario, semplicemente per affermare che non va fatta confusione tra piani di pertinenza diversa. Per me che mi occupo di poesia, dunque di qualcosa che dalle persone comuni viene per lo più percepito come attività profana e perciò estranea alla sfera religiosa, trovo invece che essa abbia molto a che fare con il sacro, così come altre espressioni artistiche autentiche, in primis la musica. Sacro e profano possono qui farsi perfino contigui. “Denique caelesti sumus omnes semine oriundi” (veniamo tutti dal seme del cielo) recita Lucrezio, il poeta latino vissuto nel I secolo a.C. che si dichiarava ateo, nel libro II del “De rerum natura”, segnalando ai suoi lettori la cosmica appartenenza di ogni essere al tutto. È, il suo, il primo movimento di uno sguardo indirizzato alla volta celeste e destinato a diventare il luogo sconfinato di un’interrogazione incessante. Basti pensare a Giacomo Leopardi, capace di riprendere in modo incomparabile questa pulsione lucreziana (si vedano i bellissimi struggenti testi, imparati sui banchi di scuola, “Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia” e “Alla luna”), ma anche a Rainer Maria Rilke (“veggo la Notte / che accende lenta nello scialbo azzurro / le prime stelle”), a Giovanni Pascoli, a Giuseppe Ungaretti o, prima ancora, a Torquato Tasso con il suo meraviglioso “qual rugiada o qual pianto…”
L’invito a sollevare gli occhi verso la pura chiarità del cielo (caeli clarum purumque colorem) e verso gli astri – verso il sole e la luna che il cielo in sé contiene (in se cohibet) – è motivato dall’amara constatazione che nessuno ormai si degna di guardare la splendente volta (suspicere in caeli dignatur lucida templa). Lucrezio ci dice, in sostanza, che i suoi contemporanei non si curavano affatto di osservare le regioni luminose del cielo, che non c’era più contemplazione. E a quel tempo di certo non c’era l’inquinamento luminoso d’oggi… E noi come ci comportiamo, chiusi nelle nostre case davanti al televisore o occupati spasmodicamente con i cellulari, spinti da chissà quale urgenza? Chissà se almeno d’estate, almeno in vacanza in riva al mare o in alta montagna, ci prendiamo il tempo per godere dello spettacolo incredibile che ci offre del tutto gratuitamente la volta celeste? Ebbene, nel caso così non fosse è ancora Lucrezio a rassicurarci dicendo che ciò che le civiltà perdono quanto a rapporto contemplativo con il cielo, potrà fortunatamente essere preservato, e ogni volta rinnovato, dalla poesia. Come non essere d’accordo? Non è la poesia, allora come oggi, capace di rivelare almeno un riflesso della bellezza che viviamo ogni giorno inconsapevoli e distratti? Ma, per venire a tempi a noi più vicini, citerei ancora un’invocazione della giovane ebrea Etty Hillesum, morta ad Auschwitz il 30 novembre 1943, esperta di bellezza e di contemplazione, per la quale il dire significa far esistere la vita:
Dammi un piccolo verso al giorno, / mio Dio, e se non potrò sempre/scriverlo perché non ci sarà più/carta e perché mancherà la luce, /allora lo dirò piano, alla sera, /al tuo gran cielo. Ma dammi/un piccolo verso di tanto in tanto.
Un verso come salvezza, dunque, come garanzia d’eternità che si rispecchia nella parola poetica, lucidamente e serenamente pronunciata, perché eco della Parola divina che ha fatto esistere l’universo e lo conserva in essere. Preziosa, valorosa, significativa perché, nel momento in cui è pronunciata, sottende l’eco della lezione di verità, avvertibile e avvertita anche nel gesto più semplice. Tutto quello che si fa ha un valore assoluto, è la risposta o l’ascolto di un messaggio, magari incomprensibile o appena udibile, e tuttavia decisivo, perché dato come prova:
“rendi mute tutte le parole / quando la sinfonia degli angeli / ci danza in petto e assorbe / l’insonnia delle colpe, l’amara / indifferenza, la fatica della lima / quotidiana // afferraci nel tuo cielo sempre / chiaro contro la bufera, contro / la polvere che acceca e sparpaglia / le intenzioni, perfino i sogni / nel curvarsi della sera // affina i sensi intorpiditi / — ingombrano il cammino / e oscurano la luce del tuo volto / l’abbraccio gaudioso e certo / senza condizioni // necessario alla promessa /
al Padre, il grido nonostante, / lancinante tra gli ulivi, / flessi nel pianto, in gelido sudore”.
Immagine in copertina di Victor Dubugras (particolare)
