Qual è il seme da cui è germinata la tua poesia?
Probabilmente l’inizio della mia passione per la scrittura e soprattutto per il linguaggio è stata la solitudine dei miei anni d’infanzia, passati quasi del tutto in casa, per problemi di salute di mia madre che non poteva muoversi e portarci al parco o ai giardinetti. In questa solitudine, ascoltavo e riascoltavo le fiabe, con i dischi dei fratelli Fabbri, allora molto noti e diffusi tra i piccoli, ma anche leggevo i libri di fiabe. Questa lettura ha alimentato in me una grande immaginazione e forse anche la capacità di visione e visionarietà. Le fiabe, come dice anche Cristina Campo, sono sempre rivelatrici di un mondo “altro”, che circonda la realtà e la supera, forse proprio in questa dimensione dell’immaginario collettivo ci sono le radici del senso del mondo concreto.
Quale la sua genesi nel tempo?
Ho iniziato a scrivere i primi testi a 9 anni, ricordo che erano due poesie che conservo ancora, scritte a mano su dei foglietti. Poi c’è stato un lungo silenzio, riempito dagli impegni scolastici e poi universitari: ero iscritta a Filosofia, alla “Statale” di Milano, sentivo però la necessità di una lingua più vicina all’esperienza e alle mie emozioni, rispetto al pur rigoroso pensiero, ma algido e razionale, di certa filosofia. Quindi, in primis, mi sono avvicinata a filosofi come Gaston Bachelard, con la sua poetica della rểverie, in seguito ci sono stati per me filosofi come Merleau-Ponty, poi le filosofe, con tutto il percorso di riflessione sull’identità femminile, svolto dalla comunità di “Diotima” dell’università di Verona, con la scoperta di Marìa Zambrano. Pian piano mi sono avvicinata alla letteratura attraverso i romanzi e poi anche alle poesie. I miei primi testi poetici sono emersi tardi, intorno ai 28 anni, e poi sono seguiti anni di grandi letture di poesia, anche riletture dei miti, così prossimi alla mia passione per le fiabe. La mia prima plaquette era di testi poetici sui miti, stiamo parlando del 1991, una rivisitazione di alcune figure epiche o mitologiche. La prima ampia raccolta poetica è stata “Fugando”, del 1997, a seguire sono venute altre 6 raccolte, tra cui mi piace ricordare anche una silloge, “Moltitudine”, nel Settimo Quaderno di Poesie Italiana, del 2001, curato da Franco Buffoni e un’altra nell’Annuario Mondadori, del 2002, a cura di Maurizio Cucchi. Tra le ultime raccolte ricordo le due che mi sono più care e mi paiono segnare un preciso percorso nella mia ricerca poetica: “Codice terrestre”, del 2008, con prefazione di Milo De Angelis, e nel “Terra magra”, del 2023, con prefazione di Ivan Crico. Raccolte dove, a mio avviso, si scorge un filo conduttore e un progressivo asciugarsi della lingua.
Quali i poeti che negli anni hai sentito più affini alla tua sensibilità?
Al Liceo ho amato con passione tutto di Leopardi e c’è stata poi la mia scoperta di Pavese, poeta e romanziere; a seguire, negli anni ‘90 un’immersione nella poesia delle donne, tra cui ricordo le letture che ho sentito più importanti, come le poesie ma anche le riflessioni di Cristina Campo, i testi di Daria Menicanti, Fernanda Romagnoli e Alda Merini, che ho conosciuto personalmente e frequentato per molti anni, prima che fosse così nota e forse anche un po’ , diciamo, “sfruttata” a livello pubblico. Gli autori che ho letto con grande passione e che hanno senz’altro contribuito al formarsi della mia lingua sono stati alcuni poeti contemporanei che ho conosciuto e con cui ho avuto uno scambio importante, in incontri e letture: Giancarlo Majorino, amico e maestro di vita, oltre che poeta stimato, poi Milo De Angelis, Maurizio Cucchi, Antonella Anedda, Mariapia Quintavalla, Roberto Mussapi e Umberto Fiori. Tra i “maestri” e le “maestre” che ho letto e amato, ci sono Vittorio Sereni, Bartolo Cattafi, Giovanni Raboni, imprescindibili, ma anche il grandissimo, T.S. Eliot, la magistrale Marina Cvetaeva e Fernanda Romagnoli.
Ti ritrovi nella riflessione, trascritta di seguito, di Giacomo Leopardi?
Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo ch’io abbia passato in mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’io vivo. Passar le giornate senza accorgermene, parermi le ore cortissime, e maravigliarmi sovente io medesimo di tanta facilità di passarle.
(Giacomo Leopardi, Zibaldone, 4417-18, 30 novembre 1828)
Più che felicità nella scrittura, trovo che scrivere poesia sia un momento di unità e di svelamento, che si compie grazie anche alla solitudine. Mentre scrivo ci sono momenti nei quali è come se, nel silenzio, nella sospensione della vita di tutti i giorni, si ricollegassero tutti i fili dell’esperienza e del pensiero, si annodano i legami tra le letture fatte e la mia stessa “voce”, che è memoria, esperienza, pensiero uniti. Scrivendo cerco la parola che possa rispondere a questa “sfida” di unità e complessità; quindi, è un lavoro anche artigianale, posso dire, per cercare la parola “giusta” ed è faticoso e richiede tempo e concentrazione.
Gabriela Fantato è poetessa, critica e saggista, tradotta in inglese, francese e arabo. Suoi testi sono presenti in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012); il poemetto A distanze minime è in «Almanacco dello Specchio» (Mondadori, 2010). Tra le sue pubblicazioni ricordiamo le più recenti: Terra magra (Il Convivio, 2023), cinquina selezionata al Premio Camaiore 2023; La seconda voce (Transeuropa, 2018), Premio Lago Gerundo 2019, Codice terrestre ( La Vita Felice, 2008), Premio Città di Tortona. Con L. Cannillo ha realizzato il volume: La Biblioteca delle voci (Edizioni Joker, 2006). Interviste a 25 poeti italiani. Ha partecipato al dibattito filosofico attorno alla “differenza di genere”, organizzando incontri al Centro Culturale Melusine e al Centro Milano Donna. Fa parte della redazione della rivista «Metaphorica» (Edizioni Efesto). Ha diretto la rivista di poesia, filosofia e arte “La Mosca di Milano” (La Vita Felice).
