Qualcuno che canti le follie di Dio (XIV) – Io sono te, tu sei me

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Chi è tua madre? Dimmelo poiché essa è anche mia madre.
E tuo padre chi è? Te lo posso dire io poiché esso è anche mio padre.
E i fratelli e le sorelle tutti sono gli stessi.
Adesso che questo ti è stato detto,
adesso che non vi è più ignoranza,
che sei stato perdonato prima che ne facessi la domanda,
posso io riprendere ad andare poiché tu sarai con me.

(Eleonora Ines Nitti Capone)


Cosa ci impedisce di sentire quello che Eleonora canta così chiaramente? Cosa ci fa così profondamente distanti da questa verità? Perché non riusciamo a fare di questa poesia il canto della nostra vita? Perché non riusciamo a fare sì che questi versi diventino i nostri versi? Perché non possiamo vivere ogni giorno mettendo in pratica gli insegnamenti di questa poesia? Cosa ce lo impedisce? Chi?

Se solo potessimo chiaramente avvertire che non c’è alcuna distanza fra cosa sono io e cosa sei tu! Se finalmente i nostri occhi si aprissero e potessimo vedere la realtà, vedremmo che una volta scagliato lo schiaffo, il segno delle cinque dita è sul nostro di volto.

Se davvero vedessimo la realtà, allora lo vedremmo che se ferisco il braccio del nemico, è il mio a sanguinare.

Siamo più che fratelli e sorelle.

Siamo così profondamente uniti, che non esiste al mondo un dolore che non sia percepibile da tutti allo stesso modo. Di conseguenza non può esistere gioia che non sia percepibile da tutti allo stesso modo.

E allora perché non piangiamo dei dolori degli altri e non esultiamo con gli altri delle loro gioie? Perché siamo così invidiosi? Gelosi? Perché anziché sentire la felicità degli altri indispensabile alla nostra, pretendiamo il loro fallimento, per giustificare il nostro?

Se non penetriamo la realtà è solo perché siamo totalmente distanti da noi stessi, dalla nostra intima e profonda identità, da chi siamo davvero, così distanti da avvertire gli altri come il nostro più acerrimo nemico.

Finché non torneremo a indagare il mistero del nostro cuore, finché non tornerà ad essere una priorità la nostra interiorità, finché non ci interesseremo dello spirito come adesso ci interessiamo di finanza e di tecnologia, finché non torneremo ad avere fede in uno sguardo, nel palmo di una mano tesa, nella bellezza della rosa, nel candore del gelsomino, finché non torneremo a credere nella bellezza, ci sarà oscura ogni verità. Come questa:


Io sono te,
tu sei me,
egli è nostro, tutti e due siamo suoi.
Che tutto sia
per il nostro prossimo.

(Georges Ivanovic Gurdjieff)

Queste parole, ci sono ignote. Non ne intuiamo neanche lontanamente né il valore né il significato. Se proviamo a penetrarle, ci perdiamo e le fraintendiamo. Siamo distanti dal comprendere razionalmente queste parole perché non sappiamo più farne esperienza, non le viviamo nella nostra vita. Siamo così caduti nell’inganno della divisione, che abbiamo costruito una realtà alla quale crediamo ciecamente, osservanti devoti. In questa realtà ogni avvenimento serve ad acuire le distanze e le differenze fra le varie fazioni. Più passa il tempo, più siamo vittime dell’inganno. Più passa il tempo, più siamo distanti dalla verità. Forse non ce ne stiamo rendendo conto ma, di questa distanza, stiamo tutti morendo…

Voglio concludere condividendo per intero il testo di una canzone che mi sembra tremendamente attuale: Canzone dell’appartenenza, di Giorgio Gaber. Vi invito ad ascoltarla, io lo faccio da più di dieci anni, e ogni volta mi commuovo. Ma se ci fermiamo alle parole dicendo: che bella! anziché cominciare a vivere le nostre vite secondo i dettami della bellezza di queste parole, allora tutto sarà vano, e sarà stato vano anche scriverle queste parole, e sarà stata vana ogni forma d’arte e saranno state vane, miserabili e dannose, tutte le nostre vite.


L’appartenenza
Non è lo sforzo di un civile stare insieme
Non è il conforto di un normale voler bene
L’appartenenza è avere gli altri dentro di sé

L’appartenenza
Non è un insieme casuale di persone
Non è il consenso a un’apparente aggregazione
L’appartenenza è avere gli altri dentro di sé

Uomini
Uomini del mio passato
Che avete la misura del dovere
E il senso collettivo dell’amore
Io non pretendo di sembrarvi amico
Mi piace immaginare la forza
Di un culto così antico

E questa strada non sarebbe disperata
Se in ogni uomo ci fosse un po’ della mia vita
Ma piano piano il mio destino
È andare sempre più verso me stesso
E non trovar nessuno

L’appartenenza
Non è lo sforzo di un civile stare insieme
Non è il conforto di un normale voler bene
L’appartenenza
È avere gli altri dentro di sé

L’appartenenza
È assai di più della salvezza personale
È la speranza di ogni uomo che sta male
E non gli basta esser civile

È quel vigore che si sente se fai parte di qualcosa
Che in sé travolge ogni egoismo personale
Con quell’aria più vitale che è davvero contagiosa

Uomini
Uomini del mio presente
Non mi consola l’abitudine
A questa mia forzata solitudine
Io non pretendo il mondo intero
Vorrei soltanto un luogo, un posto più sincero

Dove magari un giorno molto presto
Io finalmente possa dire: “Questo è il mio posto”
Dove rinasca non so come e quando
Il senso di uno sforzo collettivo per ritrovare il mondo

L’appartenenza
Non è un insieme casuale di persone
Non è il consenso a un’apparente aggregazione
L’appartenenza
È avere gli altri dentro di sé

L’appartenenza
È un’esigenza che si avverte a poco a poco
Si fa più forte alla presenza di un nemico
Di un obiettivo o di uno scopo

È quella forza che prepara al grande salto decisivo
Che ferma i fiumi, sposta i monti con lo slancio di quei magici momenti
In cui ti senti ancora vivo

Sarei certo di cambiare la mia vita
Se potessi cominciare a dire “noi”.

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