A tu per tu (V): Cristina Alziati

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Qual è il seme da cui è germinata la tua poesia?

Volendo associare qualcosa al “seme” in me della poesia, senza ch’io possa individuare una gerarchia fra ciò che i seguenti termini indicano, il pensiero mi corre all’infelicità, al pianto, alla gioia e alla meraviglia; al silenzio, alla musica. E mi corre altresì ai vetri – i vetri dai quali, da sempre, con sguardo doppio, io guardo – per una poesia venata dalla dialettica fra visibile e invisibile (le cose che fisso al di là dai vetri e le cose che – in ciò che fisso, e propriamente invisibili – io vedo). Negli anni della scuola elementare una maestra straordinaria ci portava a leggere, e a volte a illustrare, versi di Pascoli, Quasimodo, Saba, Ungaretti; composi allora la mia prima poesia, trattava di un merlo (Saba?) e del vialetto di casa, altro non ricordo. La gettai via. Conservo invece ancora, di quegli anni, un mio disegno ispirato al “Ritratto della mia bambina” sabiano, e tutti i versi di quei poeti mandati allora a memoria, indelebili.


Quale la sua genesi nel tempo?

Da quei primi anni in su, per molto tempo, ho scritto senza consapevolezza dell’operazione che stessi compiendo, nonostante riconoscimenti anche significativi del mio lavoro (Milo de Angelis includeva alcuni miei esiti in una rubrica che teneva per la rivista di Crocetti “Poesia”). Verso la fine degli anni Ottanta, l’incontro – per ragioni biografiche – con la dimensione della storia, dei destini collettivi, ha costituito l’occasione in cui mi si è reso, per così dire, fisicamente chiaro qualcosa che sapevo solo astrattamente, a livello teorico: ossia, che le scelte linguistiche, stilistiche, formali riflettono visioni del mondo. I versi raccolti nei miei libri sono tutti successivi a tale, forse tardiva, messa a fuoco.


Quali i poeti che negli anni hai sentito più affini alla tua sensibilità?

Procedo in ordine alfabetico, in barba alle cronologie; e del resto, coloro che indico costituiscono tutti quanti e a tutt’oggi le mie stelle polari: Brecht, Cavalcanti, Dante, Fortini, Gelman. Ma aggiungerei, per la loro folgorante scrittura in prosa, Loy, Meneghello, Pavese, Vittorini, Saramago; e i registi Huillet-Straub, l’irrinunciabile lezione di poetica del loro cinema.


Ti ritrovi nella riflessione, trascritta di seguito, di Giacomo Leopardi?

“Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo ch’io abbia passato in mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’io vivo. Passar le giornate senza accorgermene, parermi le ore cortissime, e maravigliarmi sovente io medesimo di tanta facilità di passarle.

(Giacomo Leopardi, Zibaldone, 4417-18, 30 novembre 1828)

Conosco e comprendo bene la disposizione di cui scrive Leopardi; non è l’esperienza che abbia io del tempo della composizione – tempo per me caratterizzato meno dalla gioia e più da una sorta di cecità, di assenza di autopercezione. Per limitarmi al vissuto di gioia comportato dalla dimensione artistica, è piuttosto il tempo in cui suono il mio violoncello, in cui suono con altri, quello in cui, decisamente, mi contenterei di durare per sempre.





Cristina Alziati è nata nel 1963 a Milano, dove ha studiato filosofia senza conseguire la laurea.
Il suo esordio poetico risale al 1992, quando una sua silloge, presentata da Franco Fortini, esce in antologia (Crocetti editore).
Nel 2005 è pubblicata la raccolta A compimento (Manni), che si aggiudica il Premio internazionale di poesia Pier Paolo Pasolini 2005 e risulta finalista al Premio Viareggio-Opera prima 2006.
Nel 2011 esce Come non piangenti (Marcos y Marcos), che vince il Premio Marazza (2012), il Premio Pozzale-Luigi Russo (2012) e il Premio Stephen Dedalus-Pordenonelegge (2013). Il libro ispira Carlo Boccadoro, che compone Quattro liriche su versi di Cristina Alziati per mezzosoprano e pianoforte (Ricordi, 2013).
Del 2023 è la raccolta Quarantanove poesie e altri disturbi (Marcos y Marcos), Premio Pontedilegno Poesia.


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