La lingua degli uccelli (XIII) -Rapaci diurni: l’Aquila, regina dei cieli

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con poesie di Giovanni Pascoli, Maria Luisa Spaziani, Giorgio Caproni, Ada Negri, Paola Mastrocola


Premessa tassonomica. Pensando ai rapaci diurni, sicuramente si potranno immaginare aquile, poiane, nibbi, falchi, gheppi, sparvieri, poiane ecc. Poi a qualcuno verrà da porsi la domanda se siano rapaci diurni anche gli avvoltoi, i gipeti, i condor, cioè i grandi uccelli necrofagi del Vecchio e del Nuovo Mondo. Ebbene sì, in questa generica definizione di “rapaci diurni” viene incluso un gran numero di uccelli, alcuni molto simili o abbastanza simili, altri piuttosto differenti. Ma, attenzione, la scienza della classificazione delle specie viventi (tassonomia) ha subìto grandi scossoni da quando i progressi della genetica hanno, per così dire, apparentato i diversi e separato i simili. Così, un’aquila è più imparentata con un avvoltoio (e addirittura con un’upupa o un picchio o un altro Afroaves) di quanto non lo sia con un falco, che pure le somiglia di più, plasmato dall’ambiente e dalla specializzazione evolutiva[1], proprio come un delfino somiglia più a un merluzzo di quanto non somigli a un elefante, che è invece filogeneticamente del suo stesso ordine. Così veniamo a premettere che sono due gli ordini che includono i cosiddetti rapaci diurni: gli Accipitriformi (es. aquile, nibbi, sparvieri, poiane, ecc e, con qualche riserva, avvoltoi) e i Falconiformi (falchi, gheppi, grillai, lodolai ecc e i caracara, rapaci del Nuovo Mondo).

Precisazioni queste appena espresse, sinteticissime ma doverose, che ai nostri cari poeti moderni e contemporanei non saranno forse mai venute in mente, come è in fondo naturale che sia…


Ma veniamo all’Aquila. Come non dare precedenza alla regina dei cieli e ad uno dei rappresentanti più iconici, non solo tra gli uccelli, ma dell’intero regno animale?
Il genere Aquila comprende una decina di specie, ma, essendo ora opportuno ricondursi dall’àmbito naturalistico a quello simbolico, araldico, mitologico e, a seguire, letterario e poetico, mi fermo qui, semplicemente ricordando che in Italia tutto viene ricondotto all’Aquila reale (Aquila chrysaetos).

Anzi, poiché nella vastità delle presenze, citazioni, leggende, rappresentazioni dell’Aquila ci si potrebbe restare impigliati per pagine e pagine, seguirò un procedimento inverso da quello che ho usato nei precedenti articoli e partirò dai testi poetici per evidenziare i principali attributi simbolici, metaforici, figurati da un lato e ornitologici e naturalistici dall’altro. E mi limiterò strettamente alla poesia italiana moderna e contemporanea, tralasciando i contenuti delle numerose testimonianze straniere, tra le quali mi piace però almeno citare la splendida Águila di Pablo Neruda,[2] l’”Aquila possente” di Shelley[3], L’aquila, maestosa, di Alfred Tennyson[4] e L’amplesso delle aquile, di Walt Whitman[5], che ci fornirà l’aggancio al primo dei testi di poesia italiana che considereremo, dell’immancabile Giovanni Pascoli.

Tra i Nuovi poemetti (1909) ve n’è uno, Le due aquile, che ci consente di effettuare diverse osservazioni prettamente ornitologiche. Già il titolo stesso – che fa il paio con quello whitmaniano – ci rimanda a un preciso aspetto etologico. Come molti uccelli, anche le aquile sono monogame e, una volta formata la coppia, rimangono fedeli per tutta la vita; il quadretto conclusivo che ci porge Pascoli pare essere la puntata finale della narrazione – con un gioco di fantasia attraverso i continenti – che ha avuto inizio con L’amplesso delle aquile di Whitman: «due aquile in amore,/ L’impetuoso avido contatto, l’unione alta nello spazio». Lo spettacolare rito nuziale avviene in volo ed è una danza di corteggiamento tra i più elaborati di tutto il regno animale, che a prima vista potrebbe essere scambiato per una battaglia tra i due esemplari. Dopo qualche tempo ecco come si conclude la storia, nell’ultimo frammento del poemetto pascoliano…

da Le due aquile di Giovanni Pascoli[6]

VII

Amore! Ed ella cova. Il capo eretto
e gli occhi fissi, lunghi giorni e notti.
Col rostro adunco ora si spiuma il petto,

sprimaccia il covo. Sente gli aquilotti…

Sul destino difficile degli aquilotti (crudamente: dei due pulcini spesso solo uno sopravvive e solo un sopravvissuto su cinque arriva all’età adulta) tralasciamo il resto, giacché l’antipoesia dei fatti non ha lasciato, che io sappia, alcuna traccia nei versi. Così l’auspicio pascoliano «vuole due grandi aquile nuove il mondo!» resta una speranza molto spesso irrealizzata.

Nel poemetto del poeta romagnolo non mancano elementi realistico-descrittivi, che si ritroveranno, con diversi incrocio, in molte delle poesie dedicate al rapace o nelle quali questi appare.
La «rupe», il «crepaccio», il «gelo», il «ghiaccio», le «nubi», e poi «valli», «botri», «torrenti», «cascate» «valanghe» ecc sono gli irrinunciabili elementi ambientali e paesaggistici del territorio dell’Aquila, rapace delle altezze per antonomasia.
E per antonomasia la regina dei cieli è tale anche per le dimensioni massime tra i rapaci (le «grandi ali», la «grande ombra») raggiungendo un’apertura alare di quasi due metri e mezzo (inferiore solo a quelle dei gipeti e di altri avvoltoi).
E con le diverse unità lessicali e frastiche «s’alza […] E s’alza ancora […] sopra le nubi, immobile su l’ale», «ruota» e poi «l’ombra [che] cresce//all’improvviso», «Con l’ali aperte scende», «s’inabissa a piombo»[7] il poeta descrive piuttosto nitidamente volo e modalità di caccia dell’uccello, esagerando non poco includendo daini e camosci tra le sue vittime, che al massimo possono consistere in piccoli di camoscio e capriolo.

Franco Battiato cantò Le aquile non volano a stormi (metafora della condizione dell’uomo in cammino solitario attraverso il simbolo di altezza spirituale che è la regina), ma in realtà le aquile volano spesso in coppia, e lo fanno per una precisa tecnica di caccia: un’aquila vola bassa per mettere paura alla preda e l’altra dall’alto cerca di catturarla.

Restando ancora sul testo di Giovanni Pascoli, le descrizioni «la fulva aquila […] risplendente d’oro», ci portano a motivare il nome scientifico di Aquila chrysaetos, dal greco χρυσός, oro. Elemento, a un tempo, morfologico e simbolico, con connotazione tropologica di solare, di manifestazione dello spirito divino o di messaggera degli dei, vittoriosa per conto delle forze celesti su quelle ctonie e terrestri, talora figura psicopompa. L’aspetto solare e divino è forse quello saliente nella simbologia dell’Aquila, ubiqua nelle tradizioni di molte culture e quasi invasiva nell’iconografia e nell’araldica[8].
Maestosa nella figura, dominatrice delle alte quote e alle “più alte regioni del cielo” è naturaliter stata simbolo del potere divino e, facile conseguenza, emblema di tutti i grandi imperi del passato, dal romano al bizantino, dal carolingio al germanico, dal russo all’austriaco. Ed è figura mitologica rilevantissima in molte culture: sciamaniche asiatiche, da quelle dei nativi americani (Grande Uccello del Tuono, Wakynian Tanka), alle nordiche europee, alla induistica (Garuda), alla greco-romana; è presenza veterotestamentaria, figura cristica e apocalittica (l’Aquila è il simbolo di Giovanni l’Evangelista), in seguito anche agiografica.
Si contrappone, abbiamo accennato, l’Aquila, simbolo dell’alto e dell’Alto alle creature del basso e all’inferno; nutrendosi anche di serpenti, simbolo dell’oscurità, della terra e delle forze dell’oltretomba, incarna idealmente il trionfo del bene sul male, spesso raffigurato con le forme di un serpente, soccombente al rapace.

Animale, dunque, semidivino o, in ogni caso, laicamente maestoso ed imponente, irraggiungibile per le creature di terra («ora sai che non può nascere l’aquila/ dal topo» – conclude Eugenio Montale la poesia Botta e risposta II [9]) del cui spirito Maria Luisa Spaziani – accostamento casuale di cui mi rendo conto solo ora! – compie un breve quanto efficace ritratto in Transito con catene:

Dall’alto di Maria Luisa Spaziani [10]

Sono un’aquila libera virgola e dall’alto contemplo
Il tritume dei giorni in cui intanto affogo.
(La fiamma dell’inferno non dà luce.
Non dà tepore un rogo.)

Abbattere l’Aquila, nei termini nei quali l’abbiamo presentata, può apparire o equivalere letteralmente a un sacrilegio. Magnificamente ambiguo è, invece, il Franco Cacciatore caproniano, nella sua intenzione di simbolico «omicidio-deicidio-suicidio sui generis):[11]

In Boemia di Giorgio Caproni [12]
   S’era udito uno sparo.
L’aquila era caduta
   – altissima – a piombo.

   Mi sgretolò il cuore il rombo
d’un grido d’allegria.

   Ah magia, magia.

   Strozzato d’ira e follia,
spezzai il mio fucile avaro
nell’antro della gelosia.

Ma forse è ancora più sacrilega e ignobile la vittoria sull’Aquila – semidivinità – non con la caccia ma con l’umiliazione in gabbia, «chiusa in un disdegno/ indomito», offesa dall’altrui pietà. Potenza dei simboli, ma anche cruda realtà narrata con commozione da Ada Negri:

Aquila reale di Ada Negri[13]

T’ho vista ieri, irta ferrigna immobile
dietro le sbarre d’una vasta gabbia.
Non guardavi già tu la gente piccola
che ti guardava. — Ferma sugli artigli
d’acciajo, gli occhi disperati al torbido
cielo volgevi, al cielo!… — Uno scenario
t’hanno fatto di rocce, per illuderti:
perché tu creda ancor d’essere in patria,
fra pietrami di grotte e di valanghe,
fra protervie di rupi e di ciclopici
templi, sospesi in vetta a’ precipizii,
in faccia al vento che a procella sibila.
— Ma non t’illudi tu. — Vedi le sbarre,
sai che è finita. — Io voglio ora una storia
dirti d’uomini saggi, che le proprie
mani a foggiar la propria gabbia adoprano,
— d’oro o di ferro — quasi sempre d’oro: —
e bene assai la temprano e la rendono
inaccessa, e là dentro si rinserrano,
e si lamentan poi d’essere in carcere,
guardando il mondo co’ tuoi occhi d’odio
vano e di vana disperazïone.
Tu almeno, tu fosti ghermita al laccio,
fosti ferita, tu, nella battaglia
feroce, prima d’esser come un cencio
ignobile fra mano al tuo nemico.
E stai senza speranza e senza gemito
vile; e chi passa ti può creder morta
o sculta in bronzo, così immota e diaccia
t’irrigidisci, chiusa in un disdegno
indomito per tutto che non sia
l’ebbrezza della libertà perduta.
E, se tu comprendessi, con un colpo
di rostro lacerar vorresti il volto
di chi t’offende con la sua pietà.

Ma c’è di peggio, che non trova spazio neppure nei versi più scabrosi. Ancor più di quanto ci ricorda ne La natura degli animali Claudio Eliano (II sec a.C.) a proposito di un altro attributo dell’aquila e, in generale, dei rapaci diurni: l’acutezza della vista. La “vista di un’aquila” o l’avere un “occhio di falco” sono due modi di dire ampiamente noti e utilizzati. «Tra tutti gli uccelli l’aquila ha la vista più acuta» […] e per questo, scrisse Eliano, se «una persona che ha la vista offuscata e mescola del miele attico con la bile di questo uccello e se lo spalma sugli occhi […] renderà la sua vista acutissima».[14]

La pratica più orribile, che ha purtroppo riguardato non solo l’Aquila, ma altri volatili quali Corvi, Cornacchie, Gufi, Civette (ne ho parlato nel paragrafo ad essa dedicato): inchiodare per le ali questi uccelli alle porte o sui recinti di proprietà, con le più assurde pretese scaramantiche! Vengono i brividi all’incipit di Inventare di Paola Mastrocola, che con grande sollievo poi si sciolgono nel prosieguo della poesia:


da Inventare di Paola Mastrocola[15]




Collocheremo un’aquila all’ingresso
In questa nuova casa di montagna.
La collocheremo colle ali
bene tese, e late
ad occupare il cielo, e il becco
giallo, ricurvo com’è delle aquile
o come il naso delle streghe adunco
che ci fa paura
che ci fa cucù di libri
figurati e dalle notti insonni.

[…]

Collocheremo un’aquila perché tu
non la vedresti mai
volare intorno ai vetri della casa.
Così te la farò di carta
o creta o cera,
perché si fa così quando ti manca
una persona cara:
coltivi la sua assenza,
fai la statua,
[…]

Così la nostra aquila inventata
volteggerà davvero al vento
[…]

E concludo con una chiosa, su un ulteriore attributo dell’Aquila: quello dell’intelligenza tanto che, ancora oggi, di una persona non molto sveglia si usa dire “non è un’aquila”. Ecco, sicuramente poca intelligenza, oltre che molta crudeltà, hanno mostrato coloro che per esporre un’Aquila hanno, non come Paola Mastrocola, costruito un fantoccio di carta, ma han fatto che straziare un esemplare vero. Come mostra la celebre e scioccante fotografia «Un’aquila di un blu intenso, California, 1936» di Dorothea Lange, nell’immagine di copertina.



[1] Uno studio del DNA pubblicato nel 2008 ha indicato che i Falchi non sono strettamente correlati agli Accipitriformi, essendo invece più strettamente imparentati a pappagalli e passeriformi, e che le similitudini anatomiche tra falchi e gli altri rapaci sono un esempio di convergenza evolutiva. La proposta basata sul DNA fa includere gli avvoltoi del Nuovo Mondo, che furono correlati in passato a cicogne o aironi, all’interno degli Accipitriformi, ma altre Società scientifiche li considerano come un come un ordine separato, i Cathartiformi

[2] Pablo Neruda, Arte degli uccelli, Passigli, 2004, pp. 34-35

[3] Percy Bysshe Shelley, Mighty Eagle, thou that soarest, in Opere poetiche, a cura di F. Rognoni, Mondadori, 2018

[4] Alfred Tennyson, The Eagle, 1851, in M. Petazzini, La poesia degli animali, vol 3, Luca Sossella Ed., p. 184

[5] Walt Whitman, in Leaves of Grass / Foglie d’erba, Rizzoli, 1988 trad. A. Marianni

[6] Giovanni Pascoli. Nuovi poemetti, Quarta edizione, Zanichelli, 1918.

[7] «Fuori piomba il presente come un’aquila» così Vittorio Bodini, nella poesia Al cinquanta per cento, in Dopo la luna, in Tutte le poesie, a cura di O. Macrì, Besamuci ed., 2023, p. 118

[8] Senza perderci in ramificate considerazioni araldiche, riferisco un solo dato, facilmente verificabile, che ci dà conto della pervasiva popolarità dell’Aquila: nel mondo, passato e presente: attualmente, più di venti Nazioni hanno adottato l’Aquila nelle loro bandiere, dall’Albania al Messico, dal Sudafrica all’Indonesia e nella storia non si contano quasi i Regni, e gli Imperi che la usarono come emblema, dall’Aquila imperiale romana in poi

[9] Eugenio Montale, in Satura, in Tutte le poesie, Mondadori, p. 286

[10] Maria Luisa Spaziani, Transito con catene, Mondadori, 1977

[11] Chiara Favati, Le ‘bestie’ aligere e la poesia, in Per amor di poesia o di versi. Seminario su Giorgio Caproni, a cura di Anna Dolfi, Firenze University Press, 2018, p. 49

[12] Giorgio Caproni, Il franco cacciatore, Garzanti, 1982

[13] Ada Negri, Dal profondo, Fratelli Treves Editori, 1910

[14] Claudio Eliano, La natura degli animali, Einaudi, 1998

[15] Paola Mastrocola, La felicità del galleggiante. Poesie 1995-2009, Guanda, 2010

Fotografia in copertina: «Un’aquila di un blu intenso, California, 1936» di Dorothea Lange | Catalogo della Mostra “Dorothea Lange. Racconti di vita e lavoro” – Torino, 2023

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