actinorrize (I) – Giancarlo Pontiggia

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Ciao Giancarlo, finalmente una giornata di sole pieno. Reduci dal Salone di Torino 2024 ma anche dall’uscita della riedizione per Vallecchi Poesia del tuo primo lavoro, Con parole remote. Librino prezioso che come sai bene ho apprezzato per l’appendice contenente alcuni testi esplicativi delle poesie e soprattutto il racconto della sua genesi; qui il merito va alla cura di Isabella Leardini. Non ti chiederò cosa si prova a rieditare il primo libro né se stai scrivendo, tantomeno come scrivi. Vorrei invece tornare al gesto che si dovrebbe sempre compiere prima di approcciare una scrittura, cioè la lettura. Quindi, cosa stai leggendo in questo momento?



Un barbare dans le jardin di Zbigniew Herbert, uno dei maggiori poeti del secondo Novecento, e che insieme a Miłosz e a Zagajewski costituisce la grande costellazione della poesia polacca, forse la più luminosa di tutto il secolo scorso.
Come ci sono arrivato? Stavo rileggendo l’immenso Herbert nella bellissima traduzione che Pietro Marchesani aveva realizzato per Adelphi nel 1993, e che io avevo letto, all’epoca, in un esemplare della Biblioteca Sormani di Milano. Compravo pochi libri, allora, un po’ perché la mia situazione economica non me lo permetteva, un po’ perché mi capitava, per ragioni di lavoro (stavo scrivendo con mia moglie, Maria Cristina Grandi, una Letteratura latina per l’editore Principato) di passare buona parte dei miei pomeriggi in Sormani.
Diciamo che la Biblioteca Sormani ha nutrito quasi tutti i miei pensieri e le mie letture nel periodo forse più intenso e felice della mia formazione, quello che va dalla fine degli anni Ottanta alla fine degli anni Novanta: e questo è uno dei tanti motivi di gratitudine che devo alla mia città. Il libro, poi, che si intitola Rapporto dalla città assediata, era sparito dagli scaffali delle librerie, dov’è ricomparso solo l’anno scorso: e appena l’ho visto, non ho potuto fare a meno di averlo con me, di rileggerlo nella gioia del possesso, che vuol dire – fra le altre cose – anche la gioia di poterlo riempire di segni, segnetti, annotazioni, insomma di farlo mio nel vero senso della parola, come se stessi dialogando con il mio poeta.
Ma allora cosa c’entra Un barbare dans le jardin, e perché in francese? È che, quando stai leggendo, o rileggendo, uno scrittore che ami, scatta quasi inevitabilmente il desiderio di continuare a leggerlo, e parlo delle prose di viaggio, di cui avevo avuto finora una vaga percezione, che Herbert aveva scritto nel corso dei suoi anni: un trittico, costituito – oltre che da Un barbare dans le jardin, dedicato alla Francia e all’Italia – da altri due volumi dedicati uno all’Olanda, e l’ultimo all’antichità greco-latina. Volumi che nessun editore italiano, a mia conoscenza, ha mai tradotto, ma che sono apparsi in francese presso le edizioni Le bruit du temps tra il 2011 e il 2014. Parlare di questa lettura, tuttora in corso, sarebbe troppo lungo, ma vorrei solo osservare quanta ricchezza di pensieri produce la contaminazione fra arte e poesia: e il pensiero corre a un altro poeta, Yves Bonnefoy, da me amatissimo negli anni dell’Università, cui si devono pagine meravigliose sull’arte italiana, che sono anche pagine di poetica, a volte di pura poesia.



Su Bonnefoy ricordo una magnifica chiacchierata con te sulla traduzione uscita per Il Saggiatore e curata da Fabio Scotto, Insieme ancora, libro che acquistai proprio perché me ne parlasti tu.
Sei una delle persone che conosco che riceve più libri in lettura, di poesia, certo, ma anche di altri generi. Quindi ci si può immaginare che poi voglia di uscire ed entrare in libreria per comprare un libro ne resti poca. In realtà quando ci vediamo discutiamo sempre di librerie e di libri, anche fuori corso, così ti chiedo cosa ti spinge a voler comprare un libro, cosa cerchi?


Per rispondere a questa tua domanda, ho dovuto dare un’occhiata agli scaffali delle mie librerie, dislocate in due case diverse, per cercare di capire cos’ho veramente comprato negli ultimi anni. Pochissima poesia, per la ragione che hai già evocato. Pochissimi Classici, poiché credo di possedere quasi tutti i grandi libri della letteratura occidentale. C’è stato un tempo in cui leggevo molta narrativa, che da diversi anni però mi delude, anche perché – spentasi la grande forza conoscitiva del romanzo ottocentesco e primonovecentesco – i narratori si sono messi a raccontare storie sempre più improbabili. Ed è un dato paradossale, ma inconfutabile, su cui forse poco si riflette: più si sono affinate le tecniche narrative, più i narratori si sono allontanati dal fuoco e dalla necessità di raccontare una storia.
E vengo a quello che mi chiedi: il novanta per cento di quello che acquisto da una ventina d’anni in qua è di impronta saggistica, e segue alcune delle mie più antiche predilezioni: la saggistica letteraria, la riflessione filosofica, gli sviluppi delle scienze, il mondo antico. Per farmi capire, potrei citarti quattro libri che mi hanno particolarmente colpito negli ultimi mesi: Lo strano ordine delle cose di Antonio Damasio (Adelphi, 2018); La passione per l’assoluto di George Steiner (Garzanti 2015); Luce d’addio. Dialoghi dell’amore ferito di Sergio Givone (Olschki, 2016); I Greci e l’irrazionale di Eric R. Dodds, un grande Classico che già avevo letto ai tempi dell’Università, e che ho riletto in una nuova edizione introdotta da Maurizio Bettini (Rizzoli, 2009). Che cosa li tiene insieme? La passione per la conoscenza, della natura come dell’uomo, condotta nelle forme più varie.
Damasio cerca di spiegare l’origine dell’uomo addentrandosi nelle misteriose vicende degli organismi unicellulari.
Givone dà vita a cinque dialoghi impossibili, mai accaduti, ma che inevitabilmente accadono, per forza di necessità, in quello strano luogo della nostra mente che è come spinto a forzare i confini del tempo e della logica per giungere a qualche ipotesi di verità non transitoria. Il più memorabile è forse l’ultimo, in cui protagonisti sono Heidegger e Celan. Ma non ce n’è uno, dei cinque, che non ti faccia pensare, e che non tocchi le questioni decisive che hanno accompagnato la storia delle idee e delle forme.
E poi c’è Steiner, il più grande lettore dell’ultimo mezzo secolo: Nessuna passione spenta, in cui si trovano raccolti i saggi scritti tra il 1978 e il 1996, è un testo cui ricorro continuamente, ogni volta che sento il bisogno di risposte decisive e sostanziali. La passione per l’assoluto è una lunga conversazione divisa in cinque capitoli più un epilogo, tenuta nel corso di diversi anni con Laure Adler. Il libro va per certi aspetti a integrare la grande autobiografia intellettuale intitolata Errata. Una vita sotto esame, che l’autore aveva pubblicato nel 1997: ed è miracoloso vedere con quanta intelligenza, e lucidità, e prodigioso sprezzo dei luoghi comuni, Steiner affronti temi anche delicati come la condizione ebraica.
Così come sorprende, nel libro di Dodds, la capacità di affrontare il tema dell’irrazionale nel mondo antico alla luce dei totalitarismi primo-novecenteschi.
Non sono mancati grandi libri nella storia dell’ultimo secolo: è mancata, semmai, la volontà di esercitare una pedagogia della lettura e del pensiero. Sono mancate le istituzioni, e per prima la scuola, che non crede più nell’altezza del pensiero e nella necessità di una disciplina interiore.


In una recente intervista apparsa nel numero 23 della rivista Versodove hai raccontato della centralità dei Classici e di come la tradizione sia fondante per poi creare il nuovo o comunque una visione poetica personale. Tu cosa rileggi spesso e perché? O qualora tu andassi a periodi, perché ricorri a quelle determinate letture?

Tra i quindici e i vent’anni mi sono immerso nel grande labirinto della letteratura occidentale, privilegiando – ma era il caso a decidere per me, e cioè i libri che giravano per casa, o quelli che potevo trovare nella piccola biblioteca del paese dove vivevo – la letteratura greco-latina, il romanzo ottocentesco e primo-novecentesco, la poesia simbolista francese, tra Baudelaire e Valéry. Poi, all’epoca dell’Università, quando scopersi le grandi librerie di Milano, venni a contatto con il mondo variegato delle riviste militanti e delle scuole poetiche, di cui non avevo avuto, fino a quel momento, alcun sentore. Solo più tardi, e sto parlando degli anni Ottanta, mi accadde di ritornare ai Classici, come per trovare una sorta di equilibrio di fronte allo strapotere della contemporaneità, che non era ancora giunto al parossismo di oggi, ma certo già imponeva le sue ragioni: rileggere Virgilio o Lucrezio tra un Caproni e un Luzi, un Bonnefoy e uno Celan mi consentiva di accedere a un altro sguardo e a un’altra intelligenza dei fatti letterari. Da allora, e avrò avuto l’età in cui Dante dice di trovarsi «nel mezzo del cammin di nostra vita», cominciai quella pratica cui non sono mai venuto meno, e che è qualcosa di molto simile a ciò che un tempo si chiamava un esercizio spirituale: chiamiamolo, se vogliamo, un esercizio di interiorità, che consisteva nel leggere periodicamente dei libri che suscitavano in me, contro il senso di dispersione e di desolazione che la contemporaneità inevitabilmente produce, un sentimento di verità chiara e duratura capace ogni volta di illuminare un cammino, e cioè – in questo caso – un cammino di letture e di pensieri, di verità insieme letterarie e umane.
Ma anche in questo caso vorrei uscire dall’astrazione e fare qualche esempio. E parlo dei primi nove libri delle Lettere di Plinio Il Giovane. So bene di parlare di uno scrittore dai molti limiti, e certo non centrale nella storia del mondo antico. Eppure, in quel libro, che lessi al ginnasio in una curatissima edizione della vecchia BUR, e che riprendo periodicamente aprendolo a caso, io ritrovo ogni volta il grande sogno di una vita umanistica, severa e laboriosa, eticamente fondata, che ha traversato e nutrito la nostra grande cultura. Così come, ogni volta che accedo, e lo faccio spesso, al libro delle Eclogae di Virgilio, mi capita di sentire la potenza del poetico colto nella sua purezza. L’ho già detto più volte: noi non ritorniamo con tanta dedizione al mondo greco-latino perché le sue opere siano più grandi di quelle del mondo romanzo, ma perché in quelle opere agisce come qualcosa di fondativo e di esemplare che non è stato più concesso al mondo giudaico-cristiano.

Giancarlo Pontiggia ci fa dono di due sue poesie inedite: potete ascoltarle, lette dal poeta stesso, cliccando QUI



Foto in copertina a cura di Cristina Daglio